Cose che succedono sotto casa (prima parte)

La 12 Calle A è una strada breve e di per sé tranquilla, una delle poche ad avere un inizio e una fine. Nel senso che nel reticolato di Città del Guatemala, fatto per lo più di strade parallele e perpendicolari che attraversano l’intera città, la 12A non è che una traversa della trafficata Avenida Helena, e va a sbattere dopo un centinaio di metri contro il muro dell’Università, per poi riprendere dall’altra parte, con il nome di 12B.

Il tale che non sappiamo come si chiama cura le auto e le lava, nel suo parcheggio privato a pochi metri da casa nostra. Incontrarlo è un rito. “Buenos dias”, gli diciamo noi. “Muy buenos dias”, risponde lui sospendendo qualsiasi attività e facendo un mezzo inchino con la testa. “Que le vaya bien” (che le vada bene), aggiunge poi, sempre sorridendo. Che sia seduto all’ombra sul gradino di casa, impegnato in una conversazione, o che stia intingendo nel secchio lo straccio da passare sulle portiere della carretta di turno, si ferma e fa la sua pantomima. E al ritorno uguale: “Muy buenas tardes, que le vaya bien”. Ma se passo io da solo, senza Laura, è molto meno ossequioso. “Buenas” dice, punto e stop, continuando a fare quel che stava facendo. A me sta anche meglio così, che sia chiaro, ma: dov’è il confine tra le formalità nelle relazioni di genere e la schizofrenia?
L’altro ieri lungo il marciapiede c’era più gente del solito, tutti sulla porta a parlare, a far finta di niente. Tutti concentrati su un evento, e noi non capivamo quale.
Più o meno a metà strada passiamo accanto ad un pick-up della polizia, con un paio di agenti appoggiati alla fiancata in attesa di qualcosa. Nello stesso momento da una porta escono altri due poliziotti. In mezzo a loro un ragazzo con meno di vent’anni. Ci passano davanti a pochi centimetri. Il ragazzo ha ai piedi una scarpa sola e le mani legate dietro la schiena con le stringhe dell’altra. Lo caricano sul cassone e se ne vanno via. La gente rientra, scambiando saluti e qualche ultimo commento.

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