Le vacanze estive: due settimane per dare un senso alla tua vita

Due settimane non sono niente. Non per uno che ha bisogno di dieci giorni per rendersi conto di essere in ferie e altri tre per abituarsi all’idea. Praticamente per me la vacanza coincide con il viaggio di ritorno. Sì, è triste.

Però ci ho provato. Quest’anno che ho avuto il privilegio di andar via “fuori stagione”, quando in giro per l’Europa ci sono solo tedeschi, olandesi e una manciata di svizzeri, mi sono detto: “Non fare lo stronzo, goditela.” A parte lo scarso tempo a disposizione – due settimane per l’appunto – c’erano tutti gli ingredienti: una destinazione di tutto rispetto, condizioni meteo favorevoli e il resto del mondo ancora dietro la scrivania a soffrire. Perché diciamolo: è bello sentirsi dei privilegiati, anche se sappiamo che a breve passeremo dall’altra parte.

Io e Laura abbiamo scelto la Croazia, e il campeggio. La nostra seconda estate da genitori volevamo che fosse più comoda e rilassante della prima, passata pedalando carichi come asini sotto il sole d’agosto della Sicilia. Anche la piccola Elisa era d’accordo, secondo me. Ci siamo fatti prestare una roulotte – un castello, considerati i nostri standard – e siamo partiti, decisi a fare la bella vita. Anche con la scelta del campeggio, ci abbiamo visto lungo: sul mare, piccolino, con tanti alberi. Abbiamo appeso l’amaca, allestito un salottino all’ombra e comprato una cassa di birra Ožujsko.

Insomma, era tutto perfetto. E io ce l’ho messa tutta per non farmi prendere dal malumore. Ho cercato di ignorare quel vecchio saccente che aveva, fuori dalla porta del camper, un trespolo apposito per appoggiare le ciabatte: mi guardava storto ogni volta che gli passavo davanti solo perché ho rischiato di tranciargli la veranda facendo manovra. Che sarà mai? Non me la sono presa neppure per l’acqua troppo fredda del mare, che tanto a me fare il bagno mica interessava. E poi, a che serve prendersela col mare? Ho lasciato perdere anche le api, la resina colata sulla sella della bici e il vento, che un giorno si è portato via il fornello con tutta la bombola. Va tutto bene, mi dicevo, sei in vacanza. Sono riuscito perfino a non cadere nella trappola del recupera il tempo perduto, fai quello che non hai potuto fare durante l’anno. Così mi sono abbandonato su una sdraio e ho fatto un respiro profondo. Ho stappato la prima birra, mentre Laura collaudava l’amaca ed Elisa collezionava sassolini in un sacchetto del pane.

Stavo per farcela…

Ma poi ho incontrato lei, la signora delle pulizie. La chiamerò Linda, nome di fantasia, dato che le barriere linguistiche non ci hanno concesso di conoscerci meglio. Quella povera donna! Me la trovavo davanti a tutte le ore del giorno, tra gli orinatoi e le docce, con il secchio d’acqua sporca tra i piedi e lo straccio in mano. Mi guardava attraverso le spesse lenti con l’aria rassegnata di chi cerca di svuotare il mare con un cucchiaino, secca come uno sterpo, fasciata nella sua gonna di jeans al ginocchio. Era lei la prima persona a cui rivolgevo la parola, alla prima pipì del mattino. E l’ultima che salutavo la sera con un grugnito, con lo spazzolino in bocca e l’asciugamano sulla spalla. Non c’era scampo: in qualsiasi momento della giornata Linda era lì. Non credo neanche che mangiasse o dormisse.

Non si tratta di un problema di privacy. D’accordo, non è il massimo essere identificati con le proprie abitudini intestinali e condividere con una sconosciuta, sempre la stessa, gli aspetti più laidi della vita. Tanto più se lei è costretta da una condizione di subalternità. Il vero problema è che vederla tutte quelle volte al giorno faceva vacillare l’illusione in cui cercavo di rifugiarmi.

Nel mondo dello spettacolo la chiamano “sospensione dell’incredulità”. Consiste nella volontà, da parte dello spettatore, di sospendere le proprie facoltà critiche allo scopo di ignorare le incongruenze e godere di un’opera di fantasia. Insomma, pur di divertirsi si accetta di passare per minchioni: “Lo so che i cani non parlano, ma ci credo lo stesso per un’oretta e mezza”. Per me le vacanze sono un po’ un’opera di fantasia, in cui faccio finta di essere quello che non sono: libero, rilassato, soddisfatto di me.

Linda era uno spoiler vivente: “Questa storia va a finire male,” sembrava dire, “il protagonista torna nella sua prigione per altre 50 settimane”. «Hello» le dicevo entrando nell’edificio dei bagni, e intanto pensavo alla vita a cui sarei tornato di lì a cinque, quattro, tre, due… giorni. Quella faccia spenta, quello straccio lurido sulle piastrelle consumate. Quel pavimento che non durava mai più di dieci minuti. E tutto questo, pensavo, per due settimane di vacanza in un posto dove i cessi li pulisce qualcun altro. Due settimane in cui devi per forza fare la bella vita, intasarti di tramonti e fritture di pesce. E fare tante foto, fornire le prove attraverso i social network, se non vuoi che la tua esistenza si riveli davvero una brutta storia, grigia e padana.

Lo so cosa state pensando: che si dovrebbe imparare ad essere contenti tutto l’anno. Vivere di un lavoro che piace, o farsi piacere quello che si ha. Apprezzare le piccole cose e bla bla bla. Io sarei anche d’accordo, e chi ha seguito questo blog ai tempi che furono sa che ci sto lavorando da un po’. Per il momento non ho molti risultati da portare. Sono tornato dalle vacanze come se fossi incappato nella casella “Tornate al punto di partenza” nel gioco dell’oca. Ho un altro anno per pensarci su.

 

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