Giro d’Italia Handbike, tra agonismo e comunità

È da un po’ che ce l’avevo lì, in un angolo del cervello. Forse da quando, nel 2014, ho conosciuto Federico Villa, un ragazzo simpatico e pieno di grinta, oltre che un campione di handbike. L’ho incontrato in un bar scalcinato di Mesero, in provincia di Milano, dove con un gruppo di ragazzini delle medie stavo registrando una trasmissione web radio in cui Federico era l’ospite d’onore. Sì, insomma, noi educatori ce ne inventiamo sempre delle belle…

Comunque sia, mentre me ne stavo dietro al mixer e facevo gesti equivoci alla gente per dire: “Più vicino al microfono”, ascoltavo Federico e in qualche modo il germe è entrato nella mia testa. Da allora la parola handbike ha rimbalzato tra le pareti della mia scatola cranica come un proposito, un’intuizione.

Così, dopo tre anni di rimbalzi, la scorsa domenica sono andato a Busto Arsizio, dove si correva la quinta tappa dell’ottavo Giro d’Italia HandBike. Non sono ancora abbastanza esperto per farvi una cronaca della gara o per fare considerazioni tecniche, e del resto non è questo il punto. È qualcos’altro che vi voglio raccontare.

Il navigatore dice: “Sei arrivato a destinazione”, ma io non vedo niente. Non ci sono grossi camion, ammiraglie, folle di preparatori atletici, meccanici e massaggiatori. Guardo con più attenzione e noto un paio di Alpini volontari accanto ad una transenna, all’ingresso di un parcheggio. Mi avvicino e capisco subito una cosa: al Giro Handbike c’è ancora un clima familiare, nonostante l’agonismo. Per capirlo mi basta dare un’occhiata a tutte quelle persone dalle divise colorate intente a sistemarsi sulle handbike, ai loro familiari indaffarati nel gonfiare le gomme dandosi una mano a vicenda, facendo battute spiritose su questo o su quell’altro, senza badare ai colori delle maglie.

Quando sono tutti pronti seguo il gruppo e mi sposto alla partenza, dove già passano i primi atleti impegnati a provare il percorso ad anello. Mi guardo un po’ intorno, cerco una buona inquadratura per fotografare i ciclisti sulla linea del traguardo, ma poi mi ricordo che non è per quello che sono lì. Rimetto in tasca la fotocamera e aspetto il via, deciso a godermi semplicemente lo spettacolo.

Dopo la partenza mi incammino in senso contrario lungo il circuito. Gli atleti, divisi in categorie a seconda del tipo di disabilità, dovranno correre per un’ora. Dopo di che, quando il primo transiterà sulla linea del traguardo, suonerà la campana e avrà inizio l’ultimo giro.

A poche centinaia di metri dal traguardo c’è un’ampia piazza con una fontana. È quasi mezzogiorno e lungo le strade ci sono pochi spettatori (il pubblico è quasi tutto intorno alla linea d’arrivo), soprattutto familiari, giornalisti e persone appartenenti ai vari team in gara. I negozi sono quasi tutti chiusi, e quelli aperti sono vuoti e silenziosi. Mi chiedo cosa pensino i gestori di tutto questo: delle strade chiuse al traffico e degli strani mezzi a tre ruote che continuano a passargli davanti alle vetrine. Chissà se l’hanno capito che quello della handbike è un mondo in crescita, destinato a coinvolgere sempre più persone e – le due cose vanno sempre a braccetto – far girare soldi. Questo per dirla nel modo più brutale, tralasciando quel piccolo dettaglio che è il cambiamento culturale, che vede nell’integrazione e nell’inclusione i suoi orizzonti più importanti.

Gli atleti hanno già compiuto il primo giro e già si capisce chi andrà a giocarsi la vittoria: ce ne sono due che hanno staccato gli altri e se ne stanno andando in coppia. Chissà se si chiama fuga anche qui, come nel ciclismo… Un tizio con un campanaccio enorme fa il tifo, mentre uno dei due corridori chiede: “Dove sono?” “Lontani” gli risponde una ragazza del suo team, ferma a bordo strada con due ruote di ricambio in mano. Subito dopo passa un gruppo corposo di altri atleti: mi siedo sul marciapiede e osservo le maglie, i diversi modelli di handbike. Mi accorgo solo adesso che gli atleti corrono con il carter che copre la corona a pochi centimetri dagli occhi: questo sì che è un nuovo punto di vista sulla bicicletta, per me che ho sempre avuto davanti il manubrio e la ruota anteriore.

Giro dopo giro il gruppo si allunga, si sfilaccia. Lascio la piazza e in fondo ad un breve rettilineo mi sistemo in prossimità di una curva, insieme a un altro paio di spettatori. Da lì posso vedere i corridori rallentare, impostare la traiettoria e riprendere a pedalare. Passano a piccoli gruppi, spesso da soli. I denti serrati, gli occhi stretti dietro le lenti scure. Braccia e volti madidi di sudore. Il pubblico lungo il rettilineo si anima al passaggio di ciascuno, dopo l’uscita dalla curva: “Vai, vai che sei forte” e poi tace. Qualche atleta senza brame di vittoria ci scherza su: “Dove vado? A destra?”

Nel silenzio interrotto solo dal tifo intermittente, le foglie cadute premature strisciano sull’asfalto. Posso sentire i telai vibrare, rigidi, e le ruote gonfiate a pressioni altissime rotolare sull’asfalto.

Dopo circa mezz’ora di gara un corridore si avvicina lento alla curva, sembra esausto. Dà un colpo alle manovelle, poi smette. Ne dà un altro, smette definitivamente. Lascia scorrere la sua handbike fino quasi a fermarsi. Mi viene spontaneo un “Dai, dai, dai!” Il pubblico sul rettilineo lo vede fare capolino dalla curva e inizia a urlare: “Vai, forza, vai!”, mentre il campanaccio fa un baccano incredibile. Il corridore riprende a pedalare con forza, come se fosse appena partito, e lo vedo farsi piccolo fino a sparire in fondo al rettilineo.

Quando mancano quindici minuti allo scadere dell’ora inizio a spostarmi verso il traguardo. Ripassando per la piazza vedo una bambina di circa due anni che corre verso la fontana. La mamma, una bionda con accento straniero, la chiama a sé: “Forza papà!” dice, “L’hai visto papà?” Guardo la piccola sporgersi sul ciglio della strada e cercare il padre nel gruppo che sta passando: lo riconosce, e i suoi occhi sono gli occhi di una bimba per il suo papà. Gli fa un saluto con la manina e poi ricomincia a correre: vuole tornare a giocare. Sorrido alla mamma, che le corre dietro rassegnata, ma anche un po’ contenta.

Al traguardo scopro che i corridori in testa stanno tenendo una media di 36,6 km/h. Il dispaly sulla linea d’arrivo segna meno dieci minuti. Mi appoggio alla transenna e aspetto.

Vince lo svizzero Athos Libanore, battendo allo sprint finale la maglia rosa Christian Giagnoni, con cui ha condotto la corsa fino a quel momento. Nel vederli transitare sul traguardo, loro e gli altri, mi rendo conto di quanta competizione, quanto agonismo ci sia. Spingono forte sulle manovelle e danno tutto per staccare gli avversari. Poi, tra meno di un’ora, mangeranno insieme la polenta preparata dagli alpini, ridendo e scherzando. Ma adesso… adesso è guerra.

Gara di Handbike
Foto di Mirko Casoppero

Non appena tagliano il traguardo mi sposto verso il parcheggio, dove so che tutti torneranno dopo la gara. Trovo già i primi arrivati che riprendono fiato, ancora sulle handbike, prima di trasferirsi sulle carrozzine o di prendere le stampelle. Mi colpisce la semplicità delle azioni: le ruote da sgonfiare, le handbike da caricare sulle macchine. Di nuovo le famiglie che aiutano, accolgono i corridori… mogli, figli e genitori che sanno benissimo quello che devono fare. C’è anche la bimba di due anni che ho incontrato prima in piazza. Sta giocando con una barbie appoggiandosi alla handbike del papà, mentre la mamma gli libera le caviglie e raccoglie le impressioni sulla gara.

Non tutti sono accompagnati dai familiari, però: “Permesso” dice un uomo sui quaranta, facendosi largo tra la gente nel parcheggio. Si ferma davanti a una Renault station wagon e cerca le chiavi, nascoste nella maglia da gara. “Vuoi una mano?” chiede qualcuno.

Le facce sono stanche ma rilassate. Il morale è alto. Nell’aria i tipici racconti che seguono le gare: “Io ho rotto il cambio” dice uno. “Guarda a me cosa è successo!” dice un altro mostrando un copertone squarciato. Ma il migliore, secondo me, è quello che arriva ancora col fiatone e dice: “Qualcuno ha una sigaretta?”

Nel frattempo si leva un coro, a metà tra il tifo e lo sfottò: “Gliso! Gliso!” dicono. Si riferiscono ad Alberto Glisoni. Anche durante la gara, c’era molto tifo per lui. Poco più tardi scopro che è l’unico partecipante della categoria “open”. Da quest’anno, infatti, anche i normodotati possono gareggiare nella handbike. E così, un altro germe è entrato nel mio cervello…

*Grazie a Mirko Casoppero per le belle foto

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