Libri che leggono me: Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta

Mi è ricapitato tra le mani un libro. Un tascabile ingiallito comprato in qualche edicola di qualche posto di mare, in un’estate degli anni novanta in cui devo essermi detto: basta seghe! Un titolo ingannevole per lettori superficiali come me: “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”. Io ero un adolescente troppo romantico, plagiato dalla retorica on the road di certi film americani. Avete presente, no, quella strada con le due strisce gialle al centro che serpeggia tra i canyon? Con il sole che cala oltre il monte e quella moto che arriva, condotta da un tale stempiato vestito di pelle nera e stivali di coccodrillo?

Quel titolo, quella copertina, mi avevano tradito. Eppure per qualche ragione, nonostante la delusione di non leggere (solo) di motori e di strade, e nonostante non capissi praticamente nulla di ciò che non erano motori e strade, ero arrivato all’ultima di quelle 400 pagine stampate fitte per risparmiare carta. In quelle pagine c’era qualcosa che intuivo appena, qualcosa che mi sfuggiva pur sapendo bene che mi riguardava. Tornato dalle vacanze l’avevo riposto su una mensola, conservando il sapore di una lettura faticosa e il dispiacere di non averla capita.

Qualche giorno fa, a discapito del ricordo di quella delusione, mi sono ritrovato a sfogliarlo. Ho soffiato via la polvere e mi sono lasciato tentare dall’incipit, tutt’altro che folgorante: “Senza togliere la mano dalla manopola sinistra” scrive Robert M. Pirsig, “vedo dal mio orologio che sono le otto e mezza”. E tra una cosa e l’altra, sempre con l’idea di riporre il libro sullo scaffale, mi trovo a pagina 317.

Di cosa parla il romanzo, bella domanda. Tanto per cominciare la storia si basa su fatti realmente accaduti, come dichiara l’autore nella nota a inizio libro. Un padre – tipo piuttosto noioso a starlo a sentire, ma anche interessante – viaggia col figlio a bordo di una moto. Lungo la strada il protagonista, ovvero l’autore, riflette sulla tecnologia e la scienza, sul dualismo sentimento-ragione, sulla manutenzione della motocicletta, sul concetto di Qualità. Si entra nella sua mente, che come un avvoltoio sembra girare a lungo intorno a una stessa idea, in cerchi sempre più stretti, ma senza mai afferrare la preda. Tra il viaggio e le digressioni teoriche si insinua il racconto del suo passato, che riemerge dall’oblio causato dall’elettroshock: il lavoro di insegnante universitario, gli scontri accademici, il sopraggiungere della follia, la rovina. E la follia sembra tornare insieme ai ricordi, nelle notti agitate che dorme accanto al figlio Chris.

Comunque questa volta ci ho capito un po’ di più. È vero che mi riguardava e mi riguarda ancora. È un libro che mette in discussione il modo in cui viviamo, le cose che vogliamo: l’ideale per chi è in crisi e cerca un pretesto per mandare tutto a puttane. (Io non vi consiglio di leggerlo, sia chiaro. Anzi, compratevi un bel thriller di Carrisi e state tranquilli al vostro posto).

Dei tanti spunti interessanti vi lascio questo brano: si parla di rigidità dei valori, di come davanti a una situazione di stallo bisogna essere in grado di riconsiderare i propri alla luce delle nuove scoperte e delle diverse situazioni.

“L’esempio più efficace contro la rigidità dei valori è quello della vecchia trappola indiana per le scimmie. La trappola consiste in una noce di cocco svuotata e legata a uno steccato con una catena. La noce di cocco contiene del riso che si può prendere attraverso un buco. L’apertura è grande quanto basta perché entri la mano della scimmia, ma è troppo piccola perché ne esca il suo pugno pieno di riso. La scimmia infila la mano e si ritrova intrappolata – esclusivamente a causa della rigidità dei suoi valori. Non riesce a cambiare il valore del riso. Non riesce a vedere che la libertà senza riso vale di più della cattura con”.

A voi convertire la metafora e calarla nella vostra realtà.

 

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