La pensione della signora Ernestina è una casa uguale alle altre, nella 12 calle A. Non ci sono insegne, cartelli, prezzi, né nomi sul campanello. Ancora mi è oscuro come funzioni il giro di affari: come ci ha detto la stessa Ernestina, una signora dai lunghi capelli grigi e dal volto più giovane e più bello di quello che la vecchiaia di solito concede, qui c’è “solo gente fidata”. Noi ci siamo arrivati su consiglio delle ragazze del Mojoca, che hanno contrattato per noi il prezzo per telefono, prima di accompagnarci e presentarci alla proprietaria.
Oltre ai tre inquilini fissi (Mario, il tuttofare tarchiato e massiccio che russa come un Diesel da rottamare e non ci lascia dormire; i due studenti, quello alto e quello ciccione che somiglia – che è uguale – all’orso Yogi). Oltre a questi tre, dicevo, per questa casa passa parecchia gente. C’è chi ha alloggiato qui per un giorno, o una settimana: una donna bionda e americana, chiassosa soprattutto nelle prime ore del mattino e madre di due bambine, una bianca e una nera, entrambe perfettamente bilingue; una trentina di studenti canadesi in gita scolastica, che si sono fermati due notti in attesa di trasferirsi per una settimana in una comunità Maya (mica li mandano a Mantova a fare il giro con la motonave, loro…); poi famiglie, ragazzi di passaggio e una vecchia centenaria, più sorda che orba, che in questo momento sta girando in corridoio col deambulatore.
Una sera della scorsa settimana, nello spazio della cucina tra il lavandino e il microonde, abbiamo conosciuto Diego. Stavamo seduti a tavola, Laura e io, sfiniti dopo una lunga giornata di incontri e dialoghi in lingua straniera. E nonostante ciò lo abbiamo ascoltato per più di un’ora.
Circa un anno fa, al villaggio dove Diego vive, un ragazzino camminava per strada, vestito alla moda di certi cantanti visti in televisione: pantaloni dal cavallo bassissimo, cresta e qualche altra diavoleria che ora non ricordo. Fa parte delle stagioni della vita, insomma: a una certa età ti vesti da deficiente; poi, di solito, smetti. Fa parte di quell’età anche lo sguardo probabilmente di sfida (ma forse solo non abbastanza remissivo) che il nostro ragazzino ha incrociato con un ex patrullero (con questa parola Diego si riferisce a un membro di un gruppo armato formato da civili e appoggiato dall’esercito al tempo del conflitto interno). Mi immagino che sia andata più o meno come con i tamarri delle nostre periferie milanesi: uno decide che l’altro l’ha guardato male, e da lì comincia la storia. Solo che qui abbiamo un uomo armato e influente, amico di senatori, poliziotti e militari. Dall’altra parte abbiamo un ragazzino imberbe, per giunta vestito da deficiente.
L’uomo ordina alle sue guardie del corpo di catturare il giovane e di condurlo all’edificio che durante il conflitto interno veniva usato come carcere. Dopo avergli tagliato i capelli, gli danno un sacco di botte: l’accusa, inventata lì per lì, è di essere membro di una mara, una banda giovanile dedita alla violenza e alla devianza. La madre del ragazzo, avvisata di quanto stava avvenendo, va a cercare il figlio: anche a lei toccano botte e sevizie. Infine il padre, un poliziotto che in quel momento si trovava al lavoro, venuto a conoscenza dell’accaduto va a reclamare dall’ex patrullero. Mentre gli uomini parlano, parte un colpo accidentale, probabilmente autoinferto, che ferisce a una gamba una delle guardie del corpo. All’ex patrullero questo sembra un pretesto perfetto: decide che a sparare è stato il padre del ragazzo. Così lo torturano e lo picchiano per ore, prima di portarlo sulla pubblica piazza e dargli fuoco davanti alla gente.
Questi sono i metodi che si usavano al tempo del conflitto interno, in quei primi anni ottanta che per il nostro uomo non sembrano essere finiti. Ora come allora, grazie alle sue amicizie, si sente intoccabile. La gente lo teme e, in un certo modo non proprio spontaneo, lo rispetta.
Diego ci parla in piedi, appoggiato al lavandino. Tiene in mano un piatto di minestra che ha già scaldato due volte e che, immerso nel racconto, ha dimenticato di mangiare. Continuo a chiedermi perché ci stia raccontando tutta questa storia. Perché questa e non altre. Io gli ho solo chiesto da dove viene e che cosa ci fa in questa città orrenda, niente più.
Quel giorno, in piazza, Diego ha filmato il rogo con il cellulare, e questo c’entra qualcosa con il fatto che oggi si trovi qui: con quel filmino in mano, ha trovato il coraggio di denunciare l’ex patrullero, che ora si trova in carcere. Ma i suoi uomini e i suoi sostenitori sono liberi e già una volta hanno procurato a Diego un soggiorno gratuito di una settimana all’ospedale. Per questo è costretto a stare lontano da casa per un po’ e a lavorare a trecento chilometri di distanza.
Il suo lavoro lui lo chiama di “salute mentale” e consiste nel guidare gruppi di auto-sostegno per i sopravvissuti al conflitto interno e per le molte donne vittime di violenze sessuali e non (ai tempi del conflitto, quando gli uomini salivano sulle montagne per unirsi alla guerriglia, le loro donne rimaste nei villaggi erano considerate a disposizione dei desideri peggiori degli uomini dell’esercito e dei patrulleros). Anche se Diego non lo dice apertamente, si capisce che parla della sua gente, dei popoli indigeni, dal 1492 in poi vittime elette degli eventi.
Poi ci racconta altre vicende della comunità Maya a cui appartiene, nel villaggio di Cotzal. Di storie ne conosce tante perché ci tiene a conservare la memoria, che ritiene essere uno strumento di libertà: per questo continuamente interroga gli anziani, chiedendo loro di ricordare e raccontare.
Alla fine di uno dei suoi racconti, con la minestra di nuovo fredda tra le mani, sorride e ci chiede che intenzioni abbiamo: se rientreremo a casa entro l’anno o meno. Gli spiego che, siccome c’è gente che va in giro dicendo che nel 2012 finisce il mondo, preferiamo non avere piani precisi.