Il Mojoca è un movimento di giovani di strada autogestito, seppur con l’aiuto di una parte (minoritaria) di persone esterne. Questo significa una complessa organizzazione fatta di organi decisionali a diversi livelli, un manuale di funzionamento annualmente e democraticamente rivisto, elezioni e continui dibattiti. In parole più povere, significa che i ragazzi e le ragazze di strada, nel partecipare al movimento, decidono per sé stessi se e come aiutarsi a vicenda.
Il senso (l’utopia?) del movimento è aprire possibilità affinché i giovani che abitano la strada possano auto organizzarsi, studiare, imparare un mestiere e divenire parte attiva della società. E cambiarla, alla fine, la società. Nella pratica, il manuale di funzionamento attuale prevede borse di studio, una scuola interna, delle case alloggio, dei laboratori di cucina, pasticceria, falegnameria e sartoria. Sono previsti anche sostegni a distanza per i figli delle ragazze di strada che vogliano intraprendere uno dei percorsi del movimento, gruppi di attività per persone già “uscite” dalla strada e un gruppo per i loro figli, chiamato “Generazione del cambio”. Le regole, decise dai ragazzi stessi, prevedono che si lascino le droghe e la criminalità e che si rispettino i principi base del movimento. E, soprattutto, è richiesto di partecipare come si può, di dare il proprio contributo umano e intellettuale. Il denaro necessario per tutto questo proviene da ONG e fondazioni europee, da iniziative di autofinanziamento e dalle così dette “reti di amicizia” italiana e belga.
L’équipe di strada, quella in cui lavoriamo noi, è composta da una coordinatrice e da due operatori, che in passato hanno vissuto in strada, da un maestro esterno e dai coordinatori di zona, che vivono in strada tutt’ora. Lavoriamo in quattro zone di Città del Guatemala, scelte sulla base del fatto che sono abitate da gruppi di ragazzi di strada, e per ogni zona c’è un coordinatore: uno di loro viene eletto dai compagni affinché li rappresenti nel movimento.
Queste persone, i coordinatori, fanno parte dell’équipe e, in un certo senso, ne sono il nucleo. Sono, nella loro fragilità, il punto di forza. Sono l’anello di congiunzione con la strada, la sua voce più autentica, la chiave di accesso alle persone che vi abitano. Ai coordinatori, come a tutti coloro che partecipano al movimento, viene chiesto di lasciare le droghe e di smettere i comportamenti criminali. Si chiede loro di essere d’esempio per i compagni, secondo i principi democratici e solidali del movimento. Ricevono, per il loro lavoro, una piccola “borsa di studio” con la quale comprare cibo e vestiti. Partecipano, eventualmente, al Comitato di gestione o ad altri organi decisionali.
Detto così forse tutto sembra facile, ma non è.
Qualche giorno fa camminavamo attraverso il mercato della Terminal, una delle nostre quattro zone. Io seguivo Hector, il coordinatore di quella zona. Non lo perdevo di vista un attimo, mentre mi facevo largo tra la frutta e le grida e i DVD pirata, tra i pesantissimi carretti che passavano veloci aprendo le folla in due e gli sguardi che si appiccicavano addosso alla mia faccia da gringo e ai miei occhi stranieri.
Seguivo la schiena di Hector e mi chiedevo che cosa avesse a che fare lui, così sicuro e perspicace, con quegli altri, quelli che si alzano a fatica dal loro letto di cemento, con la mano chiusa a pugno sullo straccio imbevuto di solvente. Dove sono in lui i segni della strada, mentre lo seguo come fanno i bambini, mentre mi sento al sicuro? Ci penso e ci ripenso, mentre guardo la sua faccia pulita e i suoi vestiti freschi di bucato.
Decine e decine di autobus sono parcheggiati a lisca di pesce davanti all’edificio in muratura della Terminal, la stazione degli autobus al di là del mercato. Alcuni dei ragazzi di questa zona dormono sul tetto di questo edificio e per raggiungerli dobbiamo arrampicarci e camminare su uno degli autobus. La parte centrale del tetto, più alta, sporge per circa un metro sulla parte laterale, creando una sorta di tettoia sotto la quale si può stare solo sdraiati e che, quando piove o fa freddo, è un luogo ideale per passare la notte. Hector tira un calcio ad una scarpa destra, che va a finire nei resti ancora fumanti di un barbecue: avanzi di pollo recuperati chissà dove messi a cuocere su una manciata di rifiuti bruciacchiati. Poi scosta una coperta, che costituisce la terza parete del giaciglio. Scuote il suo compagno, avvolto nella coperta, gli dice qualcosa a voce alta, scandendo bene le parole: conosce bene la difficoltà, la lentezza provocata dal solvente. Quello si alza dal materasso, barcolla un po’ infastidito dalla luce. Alla fine fa un gran sorriso e ci saluta tutti. Allo stesso modo svegliamo gli altri e poi giù attraverso il tetto e la scaletta di un altro autobus, perché quello di prima se n’è andato.
Quindi è qui che dormi, Hector? È qui che tornerai alla cinque, finita la tua giornata di lavoro? Oppure all’incrocio, vicino alla vostra “Tour Eiffel”?
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dove sono i segni della strada?
dove sono i segni della strada?
Se cammini dietro a Hector e lo osservi bene ti accorgi che, mentre ti parla e ti fa ridere con uno dei suoi giochi di parole, le sue dita si infilano automaticamente e distrattamente a cercare monete dimenticate nei telefoni pubblici.
Quando entri nell’ufficio dell’équipe, la mattina, manca sempre qualcuno. Allora guarda sotto al tavolo e lo troverai dormendo, recuperando il poco sonno della strada. La sveglia ha suonato alle sei, per arrivare a farsi il bucato alle sette, la colazione alle otto e il lavoro alle nove. E ogni marciapiede, ogni sedile di autobus, ogni colonna è buona per recuperare un minuto di sonno.
Entrando al Tanke, al Bolivar, i ragazzi si alzano dai loro materassi e pescano da alcuni sacchetti, a terra, pezzi di tortillas, manciate di riso, avanzi di pollo. Ne offrono ai loro compagni, ai nostri coordinatori. Anche qui siamo diversi, Hector: ne offrono anche a me ma io rispondo che non ho fame, mentre a te brillano gli occhi.
Oggi sei qui con me, Hector. Mi guidi in giro per la città, mi presenti gente, mi togli di torno i rompipalle. Ma certi giorni il tuo sguardo è diverso e allora è evidente che cammini su un confine sottile, che ti porti un peso enorme e che dubiti di potercela fare. Quei giorni capisco che la strada, con tutto quello che significa per te, ti chiama e ti strattona e quasi ti inghiotte un’altra volta. E d’altra parte quanta gente mi hai presentato, in strada, dicendomi: “Guarda, lei era coordinatrice”, “Lui era nella Casa de los amigos”, “Quello lì era nel Comitato di gestione”. Quanti funamboli prima di te sono caduti e risaliti e caduti di nuovo? Mi dico che forse hanno solo scelto, liberamente, di tornare in strada. Ma i loro sguardi e le loro parole si riempiono di malinconia quando si parla di quel che è stato, e le bocche chiamano a sé il solvente, treno deragliante che porta all’oblio.