Via dalla città II (Monterrico, Guatemala)

Ci siamo presi due giorni di vacanza. Non da soli: con tutto il personale del Mojoca, alle sette di giovedì mattina, siamo saliti sull’ex scuolabus statunitense, modello “Blue bird”. Puntualmente, siamo partiti con due ore di ritardo, aspettando quelli che per varie ragioni erano rimasti con la testa incollata al cuscino. Destinazione Monterrico, sulla costa sud.
Ho già avuto modo di ripetere che Città del Guatemala è un luogo orrendo: una città corrotta e violenta, dove la bellezza è calpestata e umiliata. Una città di sbarre, fucili a pompa e vetri polarizzati. E poveracci, cani zoppi, gente disincantata che cammina guardandosi alle spalle. Poi è pur vero che c’è la Sesta Avenida, chiusa al traffico e splendente di vetrine, piena di artisti di strada e benessere occidentale; c’è la cattedrale, davanti al Parque Central, bianca e maestosa; c’è il grigio palazzo del Governo, con la sua enorme bandiera a sventolare. Come se il contraltare della miseria e della violenza sia poter, finalmente, accedere a quel vendere e comprare televisori al plasma, o rispecchiarsi nei marmi dell’opulenza della Nazione o della Chiesa.
E così prendo aria: via dalla città un’altra volta. Lungo la strada, fuori dai finestrini dello scuolabus, passano vulcani e montagne, fiumi e villaggi, agglomerati di negozi pitturati di blu per fare pubblicità alla compagnia telefonica Tigo e case col tetto di lamiera o di paglia. La giornata è di sole e promette bene; l’umore della brigata è fin troppo allegro e le casse Pioneer, ormai sfondate, diffondono reggaeton a tutto volume (questo non impedisce a qualche anima molesta di intimare all’autista di alzare un po’).
Arrivati a destinazione ci avventuriamo (tutti e trenta, con la discrezione di un gregge di vacche dotate di campana) nel piccolo villaggio, che consiste in due file di case e negozi ai due lati dell’unica strada. C’è poi un piccolo cimitero di tombe malandate, pitturate di rosa, verde o azzurro, pieno di bottiglie vuote e altri rifiuti. Prendiamo posto in un ristorante verso l’una. Alle tre (i tempi tecnici vanno sempre rispettati) arriva il mio pesce fritto: enorme, squisito. Non ne è rimasto che un occhio e qualche lisca.
Il finlandese padrone dell’hotel ha gli occhi color del ghiaccio e un portamento da SS, a dispetto della camicia hawaiiana aperta che lascia in bella mostra il pelo brizzolato. Mi chiedo per quali vie sia arrivato da così lontano a scegliersi questa vita, a mettere in piedi questo suo “Atelier del Mar”, con due piscine e a dieci passi dalla spiaggia, dove la sera puoi sdraiarti sull’amaca, sotto le palme, e ascoltare i tonfi brutali dell’Oceano.
L’Oceano, appunto. Lo chiamano Pacifico, ma è meglio non dargli troppa confidenza. Meglio spiaggiarsi tipo orca e lasciarsi frullare un po’ ad un metro dalla riva, senza perdere il contatto con la sabbia del fondo. Sabbia più scura e più grossa della nostra sabbia romagnola, ma non meno piacevole sulla pelle. Poi si può sempre trovarsi un posto appartato nella spiaggia immensa e starsene lì a seccare, a guardare il mare. Quando s’alza l’onda, dentro ci si può vedere una superficie satinata con venature che vanno dal verde metallizzato FIAT al rosso delle foglie d’autunno, dal giallo degli occhi dei gatti al blu, quello sì, del mare.

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