Foto di Laura Pelliciari |
Nei tre mesi passati nella capitale abbiamo imparato la lingua quel tanto che basta a capire e a farci capire. Abbiamo anche imparato parte delle abitudini, i tempi del mangiare, i modi di dire e fare dei chapines (così i guatemaltechi definiscono se stessi). Ma le nostre facce sono rimaste dello stesso diverso colore di prima, a parte quel po’ di abbronzatura. Con i ragazzi del Mojoca era diventato una specie di gioco: c’era uno, per esempio, che per farmi incazzare mi diceva “Ehi, gringo!” “Non sono un gringo” gli rispondevo io (i primi tempi convinto, poi divertito, alla fine un po’ stanco). “Ehi, italiano che sembri gringo!” mi diceva lui allora.
In città ormai avevamo il nostro giro: la spesa alla Despensa Familiar, la fornaia, il macellaio… Tutti ci conoscevano, almeno di vista, e avevano smesso di tentare di fotterci, sparando per una libbra di patate prezzi doppi o tripli di quelli normali. È stato faticoso, ma alla fine ci eravamo lasciati alle spalle lo status di turista e avevamo conquistato quello di straniero. Alcuni erano curiosi di noi, cercavano la conversazione, volevano sapere da dove venivamo e com’è la vita dalle nostre parti.
E ora siamo punto e a capo: in viaggio con gli zaini in spalla e la chitarra siamo lo stereotipo preciso del turista da spolpare come un osso di pollo. Se non altro io ho abbandonato il mio cappello da scemo (il mio amico Edo lo chiamava “il cappello da Terence Hill” e forse questa notizia gli dispiacerà). L’ho regalato a Mefi, uno dei ragazzi che hanno partecipato al laboratorio di rap e che, per come mi ha guardato mentre glielo davo, non credo lo metterà mai. Ma nonostante il mio nuovo e guatemalteco cappello il copione si ripete sempre uguale, ed eccone un esempio:
“Quanto costa il passaggio per el Quiché?” chiediamo ad almeno cinque o sei persone intorno alla stazione dei bus.
“15 Quetzales per persona” è la risposta di tutti.
“Quanto costa il passaggio per el Quiché?” chiediamo infine al cobrador (il tale che si occupa di raccattare e stipare a bordo più gente possibile).
“40 per persona” dice lui.
Tra i cobradores alcuni hanno talento e non tentennano neanche un attimo: ti guardano appena e ti dicono il tuo prezzo con la massima naturalezza. Altri invece si soffermano più a lungo, come pesandoti, calcolando a occhio quanto ti possono rubare (inutile rivolgersi all’autista, suo socio e complice). È una situazione complicata quella dei trasporti collettivi, anche perché sulle prime il cobrador finge di non aver sentito la domanda, afferra lo zaino e lo butta sul tetto del bus, tra i sacchi di verdure, le biciclette e la ruota di scorta. Quindi, alle volte, c’è anche da opporre resistenza in senso fisico… Per fortuna la gente quasi sempre ci aiuta ed ha la pazienza di spiegarci le cose come stanno, con il fare di quei genitori che si scusano per le marachelle di un figlio discolo ma pur sempre amato.
Tutto questo può essere divertente, come quella volta che ho fatto l’offeso e alla fine, in cambio del mio perdono, abbiamo pagato meno noi degli altri. Però alla lunga è estenuante dover sempre dubitare di quel che ti dicono, interpretare gli sguardi, giocare d’anticipo e d’astuzia. Ma è questa l’esperienza che abbiamo voluto fin dall’inizio: conoscere la fatica dell’integrazione. Volendo, esistono navette che ti portano da un’enclave turistica all’altra, paradossalmente “senza dover mai passare per il Guatemala”. Ti portano dalla Sesta Avenida della capitale ad Antigua, da Antigua a Panajachel, sul lago di Atitlan. E poi al mare, o dovunque ti pare, senza mai dover smettere di parlare inglese con altri occidentali o di usare – spesso – la tua American Express.
Non me la sto tirando per aver passato nove ore al giorno degli ultimi sei giorni a riempirmi di lividi sui bus, viaggiando su strade dissestate, seduto (ad andar bene) su sedili sfondati, prendendo capocciate sui vetri per via delle buche e facendomi venire il torcicollo per controllare se quelli che viaggiavano sul tetto mi stessero o meno rubando lo zaino. E neanche voglio intendere che sia un pirla colui che spende i suoi soldi per farsi portare direttamente nella cartolina. Voglio solo dire che sono davvero due esperienze diverse, e dovrebbero avere nomi diversi. Ma se quello delle cartoline si chiama turismo, ancora non so come chiamare il nostro fermarci e ripartire in un singhiozzo irregolare.