Svegliati di buon ora dal caldo insopportabile di Lanquin, prepariamo gli zaini e andiamo a cercare un microbus che ci porti verso est, così da avvicinarsi poco a poco alla costa atlantica. Dopo le immancabili scene per il prezzo del passaggio (alla fine interviene un vecchio, che cazzia l’autista e pretende per noi un prezzo equo) carichiamo gli zaini sul tetto e via. Il bus ci lascia a Cahabon, tappa intermedia in cui ci mettiamo in cerca di un altro mezzo di trasporto, sempre in direzione est. Ma scopriamo presto che non ce ne sono più per oggi: ne parte solo uno ogni giorno, dalla piazza del mercato, alle quattro del mattino.
Fa un caldo torrido, abbiamo sete e fame, siamo stanchi per via della strada dissestata e dell’affollamento del bus. Ci mettiamo in cerca di un alloggio, così da liberarci almeno degli zaini, ma neanche questa sembra una cosa facile: camminiamo in varie direzioni, in salita e in discesa, seguendo le scarse indicazioni della gente; ma non troviamo che un albergo al completo e una pensione abbandonata. Sudati da fare pietà, incapaci di ragionare con calma, ci infiliamo allora in un comedor (locale dove si mangia a prezzo popolare e a menù fisso). Le tre donne nella cucina ci guardano come se fossimo un incrocio tra un marziano e un pagliaccio, addirittura ridono e parlano tra loro in lingua quiché, senza però mostrare accoglienza, senza gentilezza. Mi avvicino al banco e tacciono, niente “Buongiorno”, niente “Cosa le porto?”
“Questo è un comedor, giusto?” dico io, preso dal dubbio di essere magari entrato in casa di qualcuno, ingannato dai molti tavoli del suo salone. “Sì” mi risponde la più anziana.
Per farla breve, con fatica abbiamo ottenuto di ordinare carne, riso e fagioli. Ci portano anche da bere: qui chiamano acqua ogni sorta di miscuglio, dalla pepsi alle bevande solubili che servono solitamente insieme al pasto. Se si vuole l’acqua, quella vera, bisogna ricordarsi di aggiungere l’aggettivo pura. Ma io non lo faccio: ci scoliamo in un sorso il bicchierone d’intruglio rosato con ghiaccio che ci portano. La pagheremo cara, non aggiungo altro.
Comunque sia, con lo stomaco pieno si ragiona sempre meglio. Rinfrescati dall’intruglio, seccatosi il sudore, mettiamo il naso fuori e scopriamo che c’è un albergo proprio a due passi. Ci danno una stanza ampia e con due porte, una sul corridoio e l’altra sul balcone. C’è perfino un tavolo e due sedie che ci consentiranno il piacere di una partita a briscola. (ho vinto io)
Nonostante le due porte spalancate il caldo non molla la presa. Piazzo il mio letto davanti all’apertura che dà sul balcone, così da prendere più aria e da accorgermi di eventuali intrusi, ma la notte si preannuncia difficile. E’ venerdì e i vicini di stanza domani non lavorano: per questo fanno baccano. Con la sveglia puntata alle tre, verso l’una riesco a chiudere un occhio, aiutato da una leggera brezza che mi passa sulla schiena. Un’ora dopo ci svegliamo tutti e due d’improvviso per lo stesso motivo: qualcuno sta urlando. Proprio sotto la nostra stanza – lo vedo senza neanche alzarmi dal letto – una decina di persone stringono in un angolo un uomo, lo picchiano, lo insultano, gli tolgono le scarpe e la maglietta. Non capisco bene il motivo della contesa, capisco solo che il capo del gruppo, quello più incazzato, ripete di continuo “Adesso succhia!” e che l’altro piange, dice no, implora di lasciarlo. Mentre due persone tengono il poveraccio fermo per le braccia, mentre quello incazzato continua a urlare “Succhia”, un altro da dietro gli avvicina la sigaretta accesa alla schiena nuda. Pur cagandomi sotto mi affaccio e parlo ad alta voce con i vicini di stanza, nascosti nella penombra della loro stanza a seguire la vicenda e commentando sotto voce. Anche loro vengono fuori e mi spiegano che sono solo due ragazzi che litigano. Prendo in mano il telefono, neanche io so perché. Giù, nel gruppo, c’è un tipo con la maglietta blu e lo zainetto che fa la guardia. Ci vede. Poco dopo la situazione sembra più calma e tutti se ne vanno, forse a scannarsi un po’ più in là.
La sveglia non servirà a nulla, noi siamo già svegli e vigili da un pezzo quando alle tre e mezza, zaini in spalla, andiamo verso la piazza del mercato, mica tanto tranquilli. Per fortuna c’è un po’ di gente, per lo più lavoratori, che vanno nella stessa direzione. Gente che si sveglia ogni giorno a quest’ora e torna a casa che è già sera, dopo una giornata di lavoro a quattro ore di cammino da qui.
In piazza è ancora buio. Un ragazzo con la maglietta rosso-blu del Barcellona e gli stivali di gomma bianca spazza i rifiuti e li raduna in una montagna al centro della piazza. Un ragazzino sui dieci anni si arrampica sul tetto del mercato coperto per aiutare il padre a legare un angolo del telone che oggi farà ombra alla loro bancarella di frutta e verdura. Un altro ragazzino, della stessa età, si ferma a guardarlo mentre aspetta il bus che lo porterà a scuola. Laura e io ci sediamo a terra accanto a due donne indigene, anche loro in attesa con i loro sacchi di mercanzie. Passa veloce un altro ragazzino spingendo una carriola grondante sangue di un bue appena macellato. Infine, si affacciano due fari deboli e gialli dall’altra parte della piazza e tuona la voce del cobrador che urla la nostra destinazione.
E così altri bus, altra polvere sul cappello. Altro sudore, sete e mal di testa finché una lancia ci ha portati finalmente qui. E ora, qui, è un’altra storia. Tutto questo lo scrivo dondolando su di un’amaca fatta con una rete da pesca, appesa alle travi della tettoia del molo dell’Hotel El Viajero, a Livingstone. Con mezzo culo sul Mar dei Caraibi e mezzo sulla terraferma, attendo che venga l’ora di cena, per mangiare sotto questa stessa tettoia un altro di quei pesci fritti da far scoppiare il cervello. Dondolando mi godo la brezza e il riposo, prima di riprendere il viaggio.
(Riposo, poi, si dice per dire, ché stanotte alle quattro ci hanno svegliato i compagni di scuola della figlia del padrone, con una raffica di petardi. Era una sorpresa, dicono loro, per il suo quindicesimo compleanno. Vaffanculo, dico io.)