Semuc Champey |
Ma Laura ha ragione quando, con in mano una guida turistica presa a prestito, dice: “Siamo qua, dall’altra parte del mondo, chissà se mai ci torneremo… Almeno andiamoci a vedere questi posti!” Il nostro visto è valido ancora per alcuni giorni, quindi possiamo prendercela comoda e farci un giro, prima di fare rotta verso sud.
E così, senza navette e senza ostelli internazionali, lunedì 30 aprile andiamo Panajachel, sul lago di Atitlan. Ci sediamo accanto ai mitici moli di legno che tante volte avevamo visto fotografati, dipinti, stampati sulle magliette. Ma le nuvole non ci permettono di vedere i vulcani fare da sfondo oltre la riva opposta, e ci restiamo male. Molta gente per strada parla inglese, gli indigeni (altrove sfuggenti e diffidenti verso gli stranieri) ci sorridono e ci salutano. Lungo la strada che porta ai moli troviamo bancarelle colorate di vestiti, borse in stoffa o in cuoio, bigiotteria. Tutte cose che non possiamo caricare nei nostri già troppo pieni zaini.
La notte successiva, come per controbilanciare, la passiamo a San Cristobal, un posto qualsiasi dalle parti di Cobán. Arriviamo col buio e bussiamo al portone di metallo dell’hotel Israel, nel quale si apre uno sportellino più piccolo da cui, dietro due corte sbarre, si affaccia una ragazzina. Da queste parti sembrano essere poco abituati a ricevere turisti (e ospiti in generale), tanto che la piccola rimane come sbigottita e richiude lo sportello. Poco dopo si affaccia la madre, una giovane dalla pelle bruna e dal sorriso discontinuo, interrotto da molti denti luccicanti d’argento. Anche lei un poco sorpresa, ci fa accomodare al tavolo dell’ampio salone del suo ristorante, che a quest’ora della sera è già chiuso. “Vado a preparare la stanza” dice, e tenendosi la lunga gonna colorata con una mano sale le scale seguita da sua figlia, che intanto non ha mai smesso di guardarci di nascosto e ancora adesso, dandoci le spalle sulle scale, ci osserva con la coda dell’occhio.
Al piano di sopra ci rendiamo conto di essere gli unici avventori. Il posto è povero e decoroso, il pavimento è quasi pulito e le lenzuola profumano di sapone. Nella stanza ci sono due letti, un chiodo arrugginito per appendere i vestiti e un piccolo televisore (già acceso per far bella figura) in un angolo. Nel bagno in comune non c’è l’acqua corrente, ma un grosso bidone blu a cui attingere con secchielli più piccoli, per lavarsi e tutto il resto. Dopo esserci sistemati usciamo a fare un giro e mangiamo per pochi quetzales carne alla griglia e patate fritte in un chiosco in piazza. Passeggiando per le poche strade di questo paesino circondato dalle montagne (montagne che sono come “fantasmi neri su un fondo blu”) incontriamo due capannoni da cui escono voci tonanti, suadenti e severe allo stesso tempo: sono i predicatori dentro alle loro chiese, ciascuno dei quali parla ad un pubblico di cinque o sei persone. In giro troviamo ragazzini in bicicletta, famiglie che rincasano, coppiette che passeggiano, ubriachi che barcollano. In un negozio compriamo del pan dolce, un succo di frutta per la colazione di domani e ce ne andiamo a dormire nella fresca quiete della nostra stanza.
Laura si addormenta in fretta, non faccio in tempo a chiederle a cosa ne pensi lei. Ma io mi sento molto più a mio agio a San Cristobal, un posto qualsiasi e sconosciuto, che tra le bancarelle, la musica e i locali di Panajachel, sul lago di Atitlan.
La mattina dopo prendiamo posto su un bus in direzione Semuc Champey, la nostra prossima meta. Semuc Champey in lingua quiché significa “dove il fiume si nasconde nella montagna” o qualcosa di simile. È un luogo sperduto nel profondo della selva guatemalteca in cui, appunto, il fiume Cahabón passa per un tratto attraverso una grotta, sotto terra, mentre contemporaneamente al di sopra forma delle pozze di acqua verde e limpida nelle quali ci si può tuffare a volo d’angelo. Accanto a me, appoggiato sul pavimento del bus, c’è un grosso cesto da cui spunta la testa rossa di un tacchino. Me ne accorgo solo dopo qualche minuto di viaggio, quando ci giriamo, il tacchino e io, contemporaneamente l’uno verso l’altro, trovandoci occhi negli occhi. Il bus intanto percorre la strada sterrata, scendendo il versante di una montagna per arrampicarsi poi su quella successiva e così via, per un numero di volte di cui perdo il conto.
Dopo tutto un giorno di viaggio arriviamo a Lanquin, a un passo dalla meta. E proprio a Lanquin, cadiamo in trappola. La saggezza ci suggerisce di fermarci per la notte e di inoltrarci solo domani verso il parco naturale, che sta a circa 12 Km di distanza. Ormai lo abbiamo imparato: meglio stare lontani dalle attrazioni turistiche; meglio appostarsi a una certa distanza, preparare l’attacco e poi “mordi e fuggi”. Ma scendendo dal bus c’è un tale ad aspettarci, forse avvisato dall’autista che ci ha portati fin lì. Il tale lavora per l’ostello El Portal, proprio a ridosso del parco naturale, e ci offre, se decidiamo di alloggiare dal suo datore di lavoro, il passaggio gratis sia all’andata che al ritorno. Il costo della stanza non è alto, anzi. Insomma: più per stanchezza che per ingenuità ci lasciamo convincere a salire sul cassone del motocarro, sul quale affrontiamo in piedi una sterrata anche peggiore di quelle viste fin lì. Al nostro arrivo ci sentiamo catapultati, che ne so, in Norvegia: mai in vita mia ho visto tante persone bionde tutte insieme come sotto la veranda del bar del Portal.
Tralasciando il fatto che non si capisce bene il senso di dormire in palafitte di bambù a due passi dalle case in muratura degli indigeni, devo dire che la loro strategia funziona bene: loro (quelli del Portal, maledetti) ti portano lì e dopo tu non te ne puoi andare in giro da solo, non hai energia elettrica per scaldarti le tue brodaglie o per mettere in fresco la tua acqua, non ci sono negozi dove comprare viveri… Insomma: se vuoi mangiare, bere o spostarti ti devi rivolgere alla reception, dove c’è un tizio che scrive il tuo nome sul suo quaderno e, sotto al tuo nome, mette in colonna i numeri: “Don’t worry! You pay later” ti dice. E così, per evitare di scialacquare i nostri risparmi in un modo così indegno, il giorno appresso, dopo una serata di giochi da tavolo in mezzo a teste bionde, parlando con fatica un inglese che già non dominiamo più, andiamo a visitare il parco e ci facciamo riportare a Lanquin.