Attraversare in tre giorni il Centroamerica, dal Guatemala a Panama, è come ruzzolare giù per una montagna innevata e ritrovarsi in fondo alla valle senza ben capire come. Dico una montagna innevata perché quelli della Tica Bus non ne vogliono sapere di abbassare l’aria condizionata. È pazzesco, per entrare nel bus ti devi mettere addosso tutto ciò che hai nello zaino e questo non ti salva dall’avere il naso congelato. E quando scendi per pisciare ti si appannano gli occhiali e ti devi togliere tutto prima di svenire disidratato.
Man mano che procediamo verso sud, passando per Honduras, Nicaragua e Costarica, abbiamo la sensazione di stare tornando indietro, verso gli Stati Uniti. Gli intonaci cascanti, imprecisi e scrostati, lasciano il posto alle superfici lisce dei grandi centri commerciali, al vetro di certi palazzi. Ma ancor più che negli Stati Uniti la contraddizione è forte se si butta l’occhio oltre la facciata, nel vicolo dietro, dove gli ultimi del luogo camminano tirando calci alla spazzatura, all’ombra discontinua degli avvoltoi.
A Panama City ci arriviamo in piena notte, alle tre. Troppo presto per aspettare mattino per strada e troppo tardi per godersi una notte di sonno: non possiamo far altro che accompagnarci ad una coppia di argentini nella stessa situazione e rivolgerci ad un taxista. In questi casi mi chiedo sempre: cosa direbbe il mio mentore, il Puffo Brontolone? Ah, già: Io ooodio i taxisti. Tanto più che gli argentini sono più veloci di noi e già hanno caricato i bagagli senza neanche chiedere quant’è. Ma ormai c’è poco da fare, tocca darglieli tutti questi dodici dollari. Dopo la prima notte nell’ostello “El casco viejo” usciamo in perlustrazione e troviamo, nel quartiere cinese, una pensione a ore tutta specchi e pareti rosa shocking che per molto meno ci dà una privata con bagno e tv. Sul telecomando c’è un pezzetto di carta attaccato con lo scotch, dice: porno=83.
L’umore è piuttosto basso. Cosa ci facciamo qui? Pensavamo di essere di passaggio, volevamo solo prendere alcune informazioni sulla possibilità di lavorare sulle navi cargo (utili per il nostro ritorno) e poi andarcene via, proseguire verso sud.
Verso il tramonto, quando il caldo molla un poco la presa, ci affacciamo al muretto che dá sulla baia del porto. Davanti a noi la skyline di grattacieli riflette le sue luci sul mare e sembra di essere a Chicago, sulle rive del lago Michigan. Dietro di noi il quartiere vecchio, con le sue forme trascurate e irregolari, il suo chiasso “multietnico” e i suoi baracchini di pollo fritto. Rinfrancati dalla brezza facciamo il punto della situazione: primo, per andare in Colombia non esistono strade; secondo, il confine è pericoloso da passare a piedi e i narcotrafficanti ti sparano nell’orecchio (questo è quello che ho capito io dal discorso in inglese di uno svizzero tedesco conosciuto all’ostello); terzo, nessuna nave, traghetto, peschereccio, scialuppa o canotto ti ci può portare; quarto, fino alla fine del mese gli aerei per Bogotà sono pieni e gli altri, quelli che vanno più giù, costano veramente troppo. Panama sembra essere un muro invalicabile.
Per il momento facciamo squadra con il suddetto svizzero e la sua compagna brasiliana, che hanno lo stesso problema. Condividiamo informazioni e scambiamo idee (questo è quello che ho capito io). Domani andremo agli uffici dell’Autorità Marittima di Panama, come mi ha consigliato di fare un tale guidatore di treni incontrato oggi sul bus. “Se c’è un modo, loro lo sanno”, mi ha detto. Staremo a vedere.