Sulla porta della sua casa, a Machala dell’Ecuador, Doña Eleonora ci accoglie con cortesia ma con un calore incerto. D’altra parte non ci conosce. Ci fa accomodare nel salotto al pian terreno, sui divani di legno intarsiato e velluto verde. Ha circa 70 anni e un occhio ridotto a una fessura per via di una recente operazione alla cataratta. “Scusatemi,” dice, “il dottore mi ha detto che non devo fare sforzi. Altrimenti mi avreste trovata in cucina a prepararvi la zuppa di pollo!” Parliamo un po’ di com’è andato il nostro viaggio, dei problemi che abbiamo avuto a Panama, delle ultime notti passate sugli autobus. Poi ci accompagna di sopra, ci mostra un letto singolo in corridoio e dice “Accomodatevi, qui potete riposare quanto volete”.
Doña Eleonora è madre di Miriam, la nostra vicina di casa di San Giorgio su Legnano, originaria di Machala. Quando, ormai un anno fa, le avevamo parlato del nostro proposito di viaggiare in Ecuador si era offerta di prestarci la sua casa, dato che era vuota: “Dico a mia mamma di darvi le chiavi” aveva detto. Ma ora la sua casa, attaccata a quella in cui ci troviamo, è in affitto.
Miriam è una donna gentile, onesta, piena di casini. Si sbatte lavorando di giorno e di notte, corre a destra e a sinistra per Tomy, il suo ultimogenito di otto anni. E anche a lei come a noi tocca sorridere a quelle teste di cazzo degli altri vicini, per mantenere un minimo di pace condominiale. Sono curioso di vedere casa sua, il posto che ha deciso di lasciare e il posto in cui, forse, un giorno tornerà.
Anche Doña Eleonora ha lavorato in Italia per dieci anni, e in Italia si trovano tutti i suoi figli. È sola qui e per via delle mutate leggi sull’immigrazione non è in condizioni di poter ottenere un visto per raggiungere la famiglia. Del resto a Machala, grazie al denaro guadagnato lavorando come badante nel nostro Paese, se la passa relativamente bene: ha una casa grande e ben ristrutturata in cui non manca niente ed è padrona di altre due fette dell’edificio che dà in affitto. Mi stupisco quando mi dice che sta dando una mano alla figlia a pagare le rate della macchina: avevo sempre pensato che fossero gli emigrati a mandare i soldi a casa.
A casa di Doña Eleonora ci sistemiamo un po’: è quasi un mese che viaggiamo all’insegna della precarietà abitativa e alimentare. Laviamo l’infinità di vestiti sporchi che si sono accumulati negli zaini, riposiamo. Poco a poco anche la nostra ospite si rilassa e chiacchiera volentieri: ci parla di quand’era in Italia, di come non voleva imparare la lingua ma lo ha dovuto fare, dei casini dei figli. Sembra contenta di avere un po’ di compagnia, di poter parlare con qualcuno. Noi ascoltiamo volentieri un punto di vista nuovo su storie che ci suonano familiari e ci fa un certo effetto sentirle nominare con precisione luoghi come Busto Arsizio, Legnano, Rescaldina; luoghi tanto vicini e tanto lontani.
Tre giorni dopo, comunque, decidiamo di andar via. Non per un motivo particolare, solo perché ci sembra tempo. Doña Eleonora è gentile ma ha le sue abitudini, i suoi giri: non è abituata a situazioni come questa. Per esempio, se esce di casa prima che noi ci svegliamo chiude a chiave la porta e finché non torna restiamo chiusi dentro. E se esce mentre noi non ci siamo, rimaniamo chiusi fuori. Fino ad ora ci eravamo abituati a gente che ci lasciava le chiavi di casa con tranquillità, ma se ci mettiamo nei panni di questa donna anziana e sola che non ci ha mai visti prima la capiamo benissimo. E non vogliamo metterla in difficoltà.
“Grazie per la sua ospitalità. È stato un piacere conoscerla, arrivederci.”
“Buon viaggio, che vi vada bene e che Dio vi protegga.”