Arrivederci e grazie, America Latina

 Talara è una città di mare, una città industriale. Lungo la costa desertica e montagnosa le spiagge accessibili sono rare: ovunque si trovano aree private e vigilate in cui arrugginiscono gru, carriponte, camini di raffineria, petroliere in attesa di salpare. La città si regge grazie all’azienda Petro Perù e ai suoi numerosi (e danarosi) lavoratori. Si fa un gran parlare dell’imminente ampliamento degli impianti e delle opportunità economiche che questo porterà. Molto meno si parla del fatto che se, un giorno vicino o lontano, il petrolio deciderà di non farsi più trovare, qui non resterà che un porto fantasma.
Alla pizzeria Don Maximo, dove presto servizio da ormai tre settimane come pizzaiolo, ragazzo immagine e garante dell’italianità, la pizza più costosa si chiama Petrolera. Nella sua versione grande (il cui diametro corrisponde a quello di una pizza normalissima delle nostre) costa 44 soles, circa 13 euro. (La mia paga giornaliera, per circa sette ore di lavoro, è di 45 soles.) Marcos, il proprietario della pizzeria, dice “L’ho chiamata Petrolera perché qui è pieno di petrolieri e loro me la comprano. Hanno un sacco di soldi e gli piace farlo vedere.” È una pizza immonda, la Petrolera. Cominciamo col dire che le basi vengono precotte e poi congelate: “Se no mi escono crude” dice Marcos. E vabbè. Sopra mi tocca metterci: pomodoro, mozzarella, salame, pancetta, prosciutto, salamino piccante, carne trita, pollo, carne di maiale, cipolla. E per concludere una spolverata extra di mozzarella. Tutti questi ingredienti vengono congelati e riscongelati ogni giorno, finché non finiscono, proprio come le basi delle pizze. Ma alla gente piace, la chiamano pizza e sono contenti così. Chi sono io per criticare un modo altro di cucinare, di organizzare una cucina?
Io sono una persona, mi trovo nella mia pelle, vengo da tutti i giorni e i luoghi attraverso i quali ho vissuto. Sulla base di questo, umilmente ma risolutamente, dico: quelle pizze fanno schifo. Fanno proprio cagare. Ci sono momenti in cui si guarda fisso davanti a sé una piastrella schizzata di pomodoro, muovendo veloci le mani mentre le ordinazioni piovono una dietro l’altra, sapendo che l’ananas per la pizza Hawaiana è finito e che per aprire il freezer dovrai spostare la montagna di cose che ci hanno appoggiato sopra e rimetterle a posto, mentre altre ordinazioni si accumuleranno a montagna. In momenti così è difficile mantenersi relativisti a oltranza; quello che si pensa è: non solo non sapete fare la pizza, ma pure questa cucina è un casino di cose e persone alla rinfusa. Un lavoro tanto semplice e piacevole diventa un supplizio qua dentro. E poi, Marcos, perché non compri un paio di stracci nuovi, che così la smettiamo di usare tutti lo stesso e per tutti gli scopi.
Lo so, forse è impopolare e per giunta ingrato parlar male. Però la verità è questa: “Felice di averti conosciuta, America Latina. Arrivederci e grazie.” come si dice in questi casi; e lo si dice immaginandosi già girati di spalle mentre ci si allontana. Ho sete di silenzio, di strade in cui la gente comunichi con le parole e non con il clacson. Ho scoperto che mi piace la pacatezza, magari ipocrita e di certo occidentale, di chi ti si avvicina piano e ti dice “Mi scusi…”. Non mi va più di essere chiamato a fischi, che mi si urli con insistenza “Amigo” con il solo scopo di vendermi qualcosa. Vorrei che non mi mancasse mai più l’acqua da sopra la testa proprio nel momento in cui ho finito di insaponarmi, mi piacerebbe vivere in un luogo dove l’abbiano già scoperta l’acqua calda. Vorrei addormentarmi fissando un soffitto che non sia macchiato di vernice ai bordi,  incontrare sulla mia strada un imbianchino che abbia tra i suoi strumenti di lavoro lo scotch e i giornali. Mi piacerebbe essere servito da un artigiano che pensi alla qualità e solidità del frutto del suo lavoro, non solo a dargli un’apparenza che porti il massimo guadagno con il minimo sforzo. Non voglio mai più vedere gente che vernicia di grigio una vite e te la rivende per nuova: basta con i ritocchi, le pezze, il fil di ferro. Non mi voglio più trovare a pensare che è meglio non avere una cosa che vale, perché di certo te la ruberanno.
Nel bene e nel male, sono figlio dell’occidente. Mi preoccupo di me stesso nel sentirmi a mio agio nei rari centri commerciali che trovo da queste parti, quando posso trascorrere momenti a tu per tu con le merci, prendermi il tempo di contemplarle e valutarle senza che questo implichi relazioni umane. Mi sorprendo sempre più spesso a cercar di ritagliare il mio spazio individuale, nel posto in cui vivo e in quello in cui lavoro, uno spazio piccolo ma geometrico, che sia facile per me da pensare e organizzare. Non mi vergogno di quella che chiamano “la freddezza degli europei” e che sento mia, non la cambierei con la teatralità vuota che chiamano “calore latino”, la quale non fa che viaggiare su un diverso binario dell’umana ipocrisia.
Sono pensieri così, chiedo scusa. Ma, da buon occidentale, non dimentico di fare il punto. Primo: ho bisogno di tornare tra i miei simili, e non mi riferisco agli italiani: mi basterebbe non essere una mosca bianca, continuamente esposta agli sguardi e agli imbrogli. Perché puoi diventare competente e disinvolto quanto vuoi, ma quella è una differenza che non si può cancellare. Secondo: la novità è che ce ne andiamo, tra un po’. Ce ne andiamo in Nuova Zelanda. E come sempre siamo convinti che là, là sì che sarà tutto diverso.

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