La despedida: ultima notte a Talara

 L’ultimo giorno di lavoro è anche meglio del primo giorno di vacanza. Non me ne frega niente di niente, tutto è leggero e sopportabile.
Marcos, il proprietario della pizzeria Don Maximo, alla fine è una brava persona. Ha una marcia in più rispetto ai suoi concittadini, secondo me per il fatto di essere uno dei pochi privilegiati ad aver messo il naso fuori dal Perù. È di famiglia benestante e, non senza sudori burocratici, è riuscito a passare sei mesi a Manchester, col pretesto di studiare l’inglese. L’inglese l’ha imparato so and so, come dice lui, ma di sicuro ha avuto modo di respirare un’aria diversa e di rendersi conto che esistono ben altri orizzonti, altri modi di vivere e lavorare. Alla veneranda età di ventisette anni, tanto per cominciare, non è sposato e non ha figli e questo è abbastanza per dare scandalo in Perù, in una città piccola come questa. Durante il mese in cui ho lavorato per lui ho avuto occasione di dirgli che la sua pizza è orribile, che la sua cucina è un disastro. Me l’ha chiesto lui, che sia chiaro, e la cosa interessante è che mi ha sempre risposto con una risata sincera e consapevole, compiaciuto di tanta schiettezza: chiunque altro tra i presenti si sarebbe offeso a morte. E non solo: mi chiedeva consigli e li metteva in pratica, arrivando quasi a rivoluzionare l’organizzazione del personale. Non ha stima dei suoi connazionali e non perde occasione per ripeterlo: sono pigri, irresponsabili e ritardatari, dice. Mi sembra importante specificare che nonostante le mie osservazioni negative gli affari gli vanno bene: la sua pizza piace alla gente, anche se costa tanto. E poi lui, che non sa tagliare una cipolla, ci sa fare con la comunicazione: ogni giorno se ne esce con un volantino nuovo o una promozione; e la gente accorre. Per questo mi sono detto spesso: “Ma perché non mi sto zitto?” Insomma, mi sembrava che i talaresi meritassero la pizza di Don Maximo, un po’ come gli italiani si sono meritati Berlusconi per tutti quegli anni. Un giorno risveglieranno. Ma mi sono detto altrettanto spesso: “Perché non lavorare per il cambiamento, per una pizza migliore?”
Serviti gli ultimi clienti verso la mezzanotte, Marcos mi dice che lui e tutto il resto del personale hanno organizzato per me una “despedida”, una piccola festa d’addio. “Ma devo andare a prendere Laura” gli dico. “Ti aspettiamo, vedi di tornare che siamo tutti qui per te.” Premesso che io odio le feste, tanto più se mi tocca stare al centro dell’attenzione, la loro mi sembra un’idea davvero carina. E d’altra parte, anche volendo, non mi posso sottrarre.
Così mi avvio a prendere Laura al ristorante El Uruguayo, a piedi, ché la bicicletta l’ho appena regalata a Danyr, il ragazzo silenzioso che si occupa del forno. Al nostro ritorno paghiamo due Soles al tipo del moto-taxi, scendiamo e troviamo tutti seduti in cerchio fuori dalla pizzeria. In mezzo al cerchio c’è una sedia con sopra una bottiglia di pisco (che è più o meno come la grappa) e un bicchiere. In un angolo accanto agli scalini dell’ingresso, due casse di birra. Veronica, la cameriera, fa un breve discorso e mi consegna un piccolo regalo: una maglietta con la scritta “Talara” e il disegno di una pompa per l’estrazione del petrolio, che è un po’ come la Tour Eiffel per i parigini. Poi si inizia a far girare la birra al modo peruviano: ti riempi il bicchiere e passi la bottiglia al tuo vicino, quello si tiene la bottiglia e aspetta che svuoti il bicchiere per riempirselo lui, e passare a sua volta la bottiglia. Insomma, evviva la mononucleosi. Finite le birre si attacca col pisco, finché non compare una nuova cassa di birra. “Io continuo col pisco,” mi permetto di protestare “preferisco non scendere di gradi.” Lo chef, che si chiama Marcos pure lui, vuole sapere perché. “Solo un asino mischia in questo modo!” lo apostrofa Laura prima di buttar giù un bicchiere tutto d’un fiato.
Alle quattro di mattina, con Laura appesa al collo, riusciamo a raggiungere la stanza: c’è chi si butta sul letto, chi si china con la testa sul cesso. Il giorno dopo ci aspetta un autobus per Lima e quando suona la sveglia alzarci è un impresa da titani. Apro la porta della stanza per far entrare un po’ d’aria e incrocio Marcos, lo chef, che vive nella stanza accanto e sta uscendo a farsi un giro. Ci saluta per l’ennesima volta, ci augura buona fortuna. “Ma tu non hai mal di testa?” gli chiede Laura. “Non sono mica un asino, io.” risponde lui.

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