All’aeroporto di Fort Lauderdale, in Florida, la coda all’Immigrazione è un serpente lungo e lento. Abbiamo fatto solo il primo scalo e siamo più stanchi del dovuto. In fila con noi ci sono molti giamaicani, appena arrivati con un volo da Kingston, e anche molti colombiani, imbarcatisi insieme a noi a Bogotà. Ci sono anche gli statunitensi, ma loro fanno un’altra fila, più veloce. Laura e io comunichiamo con monosillabi stentati, mentre avanziamo trascinando gli zaini verso lo sportello della polizia. Abbiamo mal di testa, non abbiamo voglia di parlare: “Hai tutto?” “Mmm.” “Compilato il modulo?” “Mmm.”
“Ehi compaesani!” dice una voce, qualche posto più indietro nella fila. “Vi ho sentiti parlare” aggiunge “e l’idioma mi sembrava familiare.” Lui si chiama Jacopo e a vederlo è lo stereotipo di quello che io, con una certa supponenza, ho sempre definito un fattone. Treccine, braccialetti, orecchini, una spilla da balia su una maglia decisamente da lavare. Ma ha anche un sorriso bianco e sincero, e degli occhi che sembrano aver visto più dei ventisei anni di vita dichiarati sul suo passaporto. Viene da sette mesi di America Latina ed è preoccupato: in molti gli hanno detto che con l’aspetto che ha, di sicuro gli faranno storie qui negli Stati Uniti. Il suo obiettivo, ma lui preferisce chiamarlo sogno, è l’India; ma per il momento è diretto in California dove cercherà di tirare su qualche soldo lavorando, diciamo così, nel ramo dell’agricoltura.
Sbrigate con successo le formalità ci ritroviamo tutti e tre nella sala d’attesa del volo per Los Angeles. Abbiamo tutti fame, ma un panino piccolo piccolo costa otto dollari e quindi ce la teniamo. Jacopo è un fiume in piena di parole, ma devo dire che lo ascolto volentieri. Tutti abbiamo dei pregiudizi, perché negarlo? L’importante è essere pronti a riconoscerli e metterli da parte, quando è il caso. Così, questo fattone mi si rivela una persona molto interessante. Non tanto per le cose che fa e dice, ma per la vitalità, la partecipazione e la consapevolezza che traspira.
È nato nella provincia di Siena, in un paesino di cinquemila abitanti dove ci si conosce tutti. La sua famiglia è benestante e a lui non è mai mancato nulla: motorini, macchine, soldi. E non solo questo: aveva già un futuro assicurato nella ditta di lavorazione di metalli che la sua famiglia portava avanti da tre generazioni.
Ma lui non ci si trovava in quei panni. “Fino a quattro anni fa” dice “non ero mai uscito dal mio paese e lo sentivo come una prigione.” Ma non è solo questo. Lo capisco quando mi racconta della sua passione per il paracadutismo: “C’erano delle volte che, mentre mi avvicinavo a terra, mi chiedevo ‘Lo apro o non lo apro?’”. Stava male e si rendeva sempre più conto che qualcosa nella sua vita non tornava. Così ha trovato il coraggio di tirarsene fuori, anche se questo gli è costato essere la vergogna e la rovina per la sua famiglia. Ha iniziato a girare il mondo e non si è più fermato: torna in Italia per qualche mese, lavora duro, e appena può riparte. Suo padre ha venduto la ditta ad un ex dipendente ed ora lavora per lui come operaio. Sua madre ha pianto molto, preoccupata per questo figlio che andava incontro a qualcosa che lei stessa non conosceva. Ma col tempo questa rottura ha portato a qualcosa di buono: dopo quattro anni suo padre, che è uno che parla poco, perché ci si vuole bene ma non lo si dice, una sera gli ha detto: “Sai, non sono mai stato così tranquillo come ora.” E sua madre è contenta delle lettere che lui le scrive dalle località più sperdute: “Scrivimi ancora,” gli dice “che mi sembra di viaggiare anche a me, mi sembra di fare quello che non ho mai fatto e che avrei voluto fare”. E ha ragione Jacopo quando dice che se è successo questo è perché, quando lui torna a casa, i suoi glielo leggono in faccia che sta bene. Lo sentono nel tono della sua voce, lo vedono in tutta la sua persona. Quindi che importa la ditta, le macchine, i soldi? In questo senso credo che questo ragazzo abbia aiutato la sua stessa famiglia a crescere.
Jacopo mi parla della necessità di dare un freno al cervello, di usare il cuore come guida nella vita. Dice che cerca di non decidere nulla, ché quasi sempre le cose vanno al loro posto naturalmente. Mi ripete più volte, e ne è convinto, che nulla accade per caso. Io non la vedo allo stesso modo, e faccio fatica a spiegargli il perché. Ma sono contento di avere incontrato una persona alla ricerca, uno che mette in discussione tutto a cominciare da se stesso. Non sta a me né a voi dire a che punto sia questa ricerca, ma come lui stesso dice “Se questo è cercare, maremma, che figata!”
Così continuerà a viaggiare. Attualmente, questo è l’unico modo in cui vuole vivere. Mi torna in mente il ragazzo torinese conosciuto qualche giorno fa a Bogotà, che da dieci anni a questa parte ha vissuto nei posti più disparati, dall’Australia alla Colombia, dalla Spagna all’Indonesia. E senza che ci fosse dietro un progetto, o un’intenzione: lui viaggia e basta. E mi torna in mente anche Gaetano, il fotografo conosciuto in Costarica, che da ormai una vita si sposta ogni quattro o cinque anni e ricomincia una vita nuova in un altro posto, insieme ai suoi tre amici artisti. Quando l’abbiamo conosciuto aveva da poco trovato casa e stava per inaugurare la sua piccola rosticceria. Mi incuriosiscono questi uomini, perché c’è qualcosa in loro che mi sfugge: “Ma cosa state costruendo voi, spostandovi di luogo in luogo?” vorrei chiedergli io, che mi illudo di sapere dove voglio andare a parare. Io che sto imparando cose che forse mi saranno utili, io che ho intenzione di tornare a casa, di avere una casa. Ma loro ti guardano con uno sguardo tranquillo, consapevole: “E chi ha detto che si debba costruire? Non ci si può limitare ad essere?” sembrano dire.
È ora di imbarcarsi: altra fila altra perquisa. Arrivati a Los Angeles Jacopo decide di ripartire subito con un autobus notturno, alla volta di una comunità hippie della California. Noi invece cerchiamo invano un alloggio ad un prezzo umano, ma alla fine ci accasciamo a dormire sulle poltroncine dell’aeroporto. E qui siamo tutt’ora, dopo quasi 24 ore, in attesa del volo FJ811, destinazione Fiji.
Ciao! Un abbraccio a voi…
AeL
ciao amici!
un abbraccio!
Laura e Luigi