Carol: sette giorni di pioggia e poi un fuoco acceso

Metafore a parte, Cape Reinga è la fine del mondo. Puoi solo tornartene da dove sei venuto, guidando verso sud lungo l’unica strada. Oppure, con una 4×4, puoi percorrere la leggendaria 90 Miles Beach, pucciando le gomme in acqua di tanto in tanto. Ma sempre verso sud, perché in tutte le altre direzioni c’è solo mare, per miglia e miglia fino all’Asia in direzione nord-ovest, al Sudamerica verso est, all’Australia verso ovest.
Punta nord della Nuova Zelanda, luogo in cui le anime entrano nell’aldilà secondo la tradizione maori, Cape Reinga è considerato il punto di incontro tra l’Oceano Pacifico e il Mare di Tasman. E in effetti, dalla terrazza del faro, si possono vedere creste schiumose e turbolenze che sono espressione della lotta tra le correnti. Perché non stiamo parlando solo di una linea immaginaria, di quelle che i navigatori tracciavano arbitrariamente sulle loro mappe. Questi due mari si scontrano proprio, spalla a spalla, come in una mischia infinita di un’eterna partita di rugby.
A Cape Reinga noi ci arriviamo dopo quattro giorni di lenta crociera, quasi sempre sotto la pioggia, che ci accompagna da quando abbiamo lasciato l’isola di Waiheke. Quattro giorni di continue soste fatte per equipaggiare la macchina di materasso, tendine anti-voyeur, fornello da campeggio, pentolame, una radio e un paio di gomme nuove. E per riparare il parabrezza, che dava segni di volersi staccare dal suo telaio. Come al solito abbiamo cercato le soluzioni più economiche, che nella piccola città di Kerikeri ci hanno portati a scoprire l’esistenza di incredibili negozi dell’usato, organizzati per sostenere il servizio delle ambulanze o gli hospis. Mercatini in cui, tra le altre cose, abbiamo comprato un paio di Levi’s per due dollari e un paio di scarponcini di pelle per cinque.
Ma una volta arrivati a destinazione (o per meglio dire al punto di partenza, visto che da Cape Reinga comincia la nostra traversata dal nord al sud della Nuova Zelanda) una stanchezza infinita si impossessa di me, rendendomi ogni piccolo imprevisto una fatica insormontabile. Il vento, la pioggia incessante, il materasso che si sgonfia ogni notte verso le quattro, il finestrino dell’auto che non chiude bene e che fischia dalla piccola fessura nell’orecchio di chi guida… Inizia così una lenta discesa, ben diversa da come l’avevamo in mente.
Perché il piano era questo: Si va in cima al Paese e poi si scende lentamente, facendo del sano e rilassante turismo: spiaggia, libri, bei paesaggi… Niente fretta. Appena troviamo un posto che ci piace ci sistemiamo e ci troviamo un lavoro. Ma di tutti i chilometri percorsi non uno è andato all’insegna del relax: solo un profondo malumore, che ha visto il suo apice con una tavola sparecchiata dal vento e uno scroscio d’acqua sulla bistecca al sangue, comprata per tirarsi su il morale.
Quando si vive in una macchina, pioggia e vento rendono tutto più difficile. Non tanto perché la macchina diventi più scomoda o più fredda, ma perché non ne puoi uscire. Ci devi rimanere ventiquattro ore nella cazzo di macchina. Si aggiunga che, da queste parti, alle cinque del pomeriggio tutto chiude e tace. McDonald’s a parte.
È successo così, una delle innumerevoli volte in cui abbiamo cercato parcheggio e ci siamo infilati in un negozio dell’usato, correndo sotto la pioggia. È stato nella città di Kaikohe, quando ormai non mi sentivo più le forze per arrabbiarmi e cercavo con occhi stanchi un materasso di gommapiuma tra gli scaffali. È capitato nel momento in cui il mio pensiero più ricorrente era: Fanculo tutto, prendo un aereo e torno in Italia!
– Avete un materasso di gommapiuma? (a parlare è Laura, in piedi alla cassa, dall’altra parte del negozio.)
– No, mi dispiace, non abbiamo niente del genere al momento. (a parlare è una signora un po’ in carne, sui quarantacinque, bionda.)
– Sa dove posso trovare un altro negozio dell’usato? (di nuovo Laura)
– Sì, dunque… (segue spiegazione della signora bionda).
– Ok, grazie.
(silenzio)
– Ma voi non eravate a Kerikeri qualche giorno fa? – dice la bionda.
In effetti, le avevamo fatto le medesime domande qualche giorno prima e in un’altra città, in un altro negozio della stessa associazione per la quale Carol (questo il nome della signora bionda) gestisce i volontari. Mi avvicino un po’ per ascoltare meglio, fingendo di cercare qualcosa tra pentole e forchettoni, non molto in vena di fare conversazione in prima persona. Così ascolto Laura raccontarle che sì, quelli eravamo noi, e che il materasso l’avevamo anche trovato, ma è bucato.
Per arrivare al dunque, Carol ci invita a casa sua. Per qualche giorno o anche per una settimana, dipende da cosa vogliamo fare noi. Non ci conosce, non sa niente di noi, a parte il fatto che dormiamo in una macchina e non abbiamo un materasso. “Avreste una stanza indipendente, con bagno e acqua calda” dice, per rendere l’invito più accattivante. Vuole che capiamo che per lei è un piacere se andiamo, ma che dobbiamo sentirci liberi di accettare o meno. Ci lascia il numero di telefono e noi ci ributtiamo indecisi dall’altra parte delle vetrate, quella dove cade la pioggia e soffia il vento.
Sarà appunto per l’insistenza degli agenti meteorologici. Sarà anche perché abbiamo imparato che qui la gente non dice le cose per far bella figura, sperando di nascosto che tu gli dica di no. Sarà perché io sono esausto, e anche Laura è stanca (forse anche stanca di sopportare me che sono esausto). Insomma, accettiamo l’invito.
Quella stessa sera ci scaldiamo le ossa davanti alla stufa accesa, facciamo una doccia calda e un bel sonno ristoratore in un letto vero, parcheggiati in una stanza buia e senza ruote. Rimaniamo con Carol un paio di giorni, poi altri due e altri due ancora, rimandando di continuo la nostra partenza. Ogni sera facciamo del nostro meglio per preparare una degna cena italiana, che le facciamo trovare pronta al rientro dal lavoro. Con noi c’è anche Dylan, il suo figlio diciottenne, minore di quattro fratelli. La stanza in cui stiamo, che in effetti è una costruzione indipendente, appartiene a Ian, il penultimo figlio, che ora si trova in Thailandia in vacanza. Jacob, il maggiore, si trova invece in Australia per lavoro mentre Stacy, l’unica femmina, vive col suo compagno a pochi chilometri di distanza. Ogni sera facciamo lunghe e interessanti chiacchierate (nei limiti del nostro inglese), seduti sui grandi divani di casa sua, immaginando il mare tremolare nel buio al di là delle vetrate. Si parla un po’ di tutto, ma mai viene menzionato un padre dei suoi figli, un marito o un compagno. Delle molte foto esposte nella stanza, in nessuna compare lui, la cui presenza sembra essere stata cancellata. Siamo curiosi ma non chiediamo, non sono fatti nostri.
Dopo sei giorni ripartiamo un po’ più asciutti e riposati. E con un materasso nuovo di zecca che, guarda un po’, Carol aveva in cantina a far niente.

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