Tornando a casa dal lavoro, un giovedì alle cinque |
Qualche giorno fa scambiavo delle mail con un amico a proposito della normalità. “Scappare,” scriveva lui, “via dall’aridità di una vita programmata dalla culla alla tomba. Casa, ufficio, supermercato…” “Ok,” pensavo io “hai ragione tu. Ma…”
Ma prima o poi con la normalità ci devi fare i conti. Non importa dove ti sei andato a cacciare: un bel momento lei ti arriva alle spalle e ti spara uno dei suoi odiosissimi coppini. E allora tanto vale essere normale fin da subito. Tanto vale sorridere alla gente, uscire tutte le mattine alla stessa ora, rifare ogni giorno la stessa strada. E possibilmente non ruttare a tavola, a seconda della compagnia.
No, io non credo di voler scappare da nessuna parte. Non per forza, non per finire un una prigione dai colori cangianti, non per avere in cambio un paraocchi con un guardrail e qualche cielo troppo azzurro disegnato sopra. “Meglio fare il ribelle in incognito.” ho risposto al mio amico. Meglio covare nascostamente le proprie sovversioni, portarsele dietro nella propria quotidianità. E non dimenticare di farsi spesso certe scomode domande, rinnovare di giorno in giorno le proprie scelte. Per fare questo non è obbligatorio andare da nessuna parte. Voglio dire, non fisicamente. Ognuno sceglie il proprio prossimo viaggio: chi va in India a cercare se stesso, chi apre un sexy shop, chi ricomincia a credere in Dio, chi si allena per la Maratona di New York, chi compra una casa, chi fa un figlio… Tutto va bene, se sei veramente tu a scegliere.
Da circa due mesi Laura e io conduciamo una vita normale. Abbiamo una stanza, una macchina, un supermercato fisso in cui fare la spesa. Ogni mattina vado al lavoro e torno a casa sette ore più tardi, col mal di schiena. Dopo cena leggo, finché la vista non si appanna e gli occhi non si chiudono. Anche l’insonnia, di cui mi ero quasi dimenticato di soffrire, è tornata ad essere parte della mia quotidianità.
Ma ci sono piccole cose che sono frutto di un disegno, e quel disegno l’abbiamo fatto noi. Abbiamo eletto questo Paese, questa città tra tante altre possibili. Al lavoro ci vado in bicicletta e quando giro l’angolo e vedo il lago in fondo alla discesa tiro un bel sospiro e, almeno per un attimo, mi sento bene. Sono piccole cose, ma fanno la differenza: i grandi spazi a disposizione, la quasi totale assenza del colore grigio, il fiume Waikato che ci scorre accanto, le cascate Huka coi loro 220 mila litri d’acqua al secondo, le pozze d’acqua termale dietro casa…
È, questa, normalità? Forse. Ma ci scorre dentro un sangue irrequieto, ci galoppa sopra un cavallo testardo che tira dalla sua parte e logora le briglie. È vero che rischiamo di accorgerci un giorno che tutto era deciso dalla culla alla tomba, caro amico. Ma non è necessario immolarsi, ritrovarsi a non poter brindare con nessuno il nostro “Vaffanculo al mondo”.
Se c’è una cosa che ho imparato in questi ultimi mesi è questa: “Si può fare.” C’erano cose che mi sembravano irrealizzabili, ostacoli che apparentemente rendevano insormontabile il raggiungimento di obiettivi e desideri. Ma tutte le avventure, i guai, le fatiche, le persone incontrate in questo viaggio mi hanno fatto capire che, se vuoi una cosa, ti metti lì e la ottieni. Ci riesci. E a maggior ragione a casa tua, tra la tua gente, accanto alla tua famiglia. Dove si parla la tua lingua e dove non servono documenti strani per esistere legalmente. Se lo vuoi, ce l’hai. L’unica vera nemica è quella voce che ti dice “Rinuncia! Ma non lo vedi che sei solo un povero pirla?” Ma è il caso di darle la stessa risposta che le darebbe un saggio. Potremmo chiamare in causa Immanuel Kant, ma forse è sufficiente Bart Simpson.