Hekou, Cina: una cena da dimenticare

La sera ad Hekou c’è musica per le strade. Un gruppo di uomini sui cinquanta, seduti in cerchio su sedie di plastica, suona l’erhu, una specie di violoncello cinese dalla voce di donna. Uno di loro canta e tutti gli altri lo seguono, all’unisono sulla stessa melodia. Pochi loro compaesani si fermano a sentire, ma forse li ascoltano i vietnamiti, dall’altra parte del fiume. Poco più in là un impianto audio suona musica dance, e lì ci sono i giovani che ballano e si divertono. Nella piazza davanti al nostro albergo, invece, gente di mezza età è impegnata in una specie di danza aerobica.
Usciamo dalla nostra stanza che è già buio, in cerca di qualcosa da mangiare. Potremmo andare da KDS, una specie di Burger King locale: facile e indolore, un’esperienza nota e uguale in tutte le parti del mondo. Invece ci buttiamo a kamikaze in un locale dai divanetti rossi e tavoli in due file lungo i muri. In due secondi sfodero tutto il mio vocabolario cinese: entrando dico buonasera e rispondo con un grazie quando una ragazza mi porge il menù. Ma il menù è in cinese e la mia pronuncia di quelle due semplici frasi dev’essere stata orribile, a giudicare dal sorrisetto della mia interlocutrice. Per un momento mi sembra che tutti i clienti smettano di mangiare per guardare noi, due animali esotici, due orsi polari paracadutati in piazza del Duomo. La situazione è imbarazzante, ma anche divertente: le donne che lavorano nel locale si radunano intorno a noi e si sforzano di capire, mentre noi ricorriamo a strategie varie per spiegarci. Digito “pollo” e “patate fritte” sul traduttore che ho installato all’occorrenza sul cellulare, mostro loro il risultato in caratteri cinesi e sembra che ci siamo capiti. Per sicurezza una di loro ci porta al tavolo dei surgelati, per chiedere conferma che sia proprio quello che volevamo. Io e Laura ci guardiamo, e in quel breve sguardo comunichiamo più o meno quanto segue: Cos’è ‘sta roba? Boh, è tutto scritto in cinese… Dovremmo provare a chiedere del cibo fresco? Sì, e come? Lasciamo perdere va’, questa roba andrà benissimo. Sì dai, ho fame, quel che arriva arriva.
Ad arrivare invece è un ragazzo sui trenta dalla faccia butterata dall’acne, tale Gong Hu, che si offre come interprete. È gentilissimo, ma combina solo casini. Il suo inglese è davvero elementare e a nulla vale dirgli che abbiamo già ordinato: lui vuole aiutarci.
Le donne stavano già preparando quello che avevamo ordinato, ma Gong Hu dà loro dei contrordini. Quelle gli gridano dietro, ma lui è solo l’interprete, un ambasciator che non porta pena, quindi che facciano come dice, poche storie. Dopo aver impartito gli ordini ritorna da noi, appoggia sul tavolo il suo succo di frutta bevuto a metà e chiede se può sedersi con noi.
La conversazione procede a stento, ma la gentilezza di Gong Hu vale la fatica. Ci racconta che lavora nelle costruzioni e fa un sacco di quelle cerimonie tipiche delle persone timide: “Sank you, sank you very much!” mi dice arrossendo quando gli chiedo dove ha studiato inglese. Forse ha pensato che gli stessi facendo un complimento, e io non ho nessun motivo per precisare il contrario. Comunque mi risponde poco dopo, quando parlando si sé dice che sa un po’ di inglese perché suo padre insegnava la lingua in una scuola media.
La cena è orribile. Prima arrivano delle crocchette bisunte dal sapore inconsistente. (Non sembra proprio pollo. Ma allora cos’è?) Poi arriva una scodella di banane fritte (forse dono di Gong Hu, che ne mangia con noi). Infine ci vengono servite le patate fritte, mollicce e crude all’interno. Ingoiato il tutto, Gong Hu chiede più volte se vogliamo ordinare altro e noi, terrorizzati, facciamo scene da mani sulla pancia: “No, grazie, siamo pieni da scoppiare!”
Una cena da dimenticare, un’esperienza da ricordare. Usciamo in fretta, diretti al KDS.

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