Quel pomeriggio di giugno me ne stavo seduto sui gradini d’ingresso del Viet Lotus Hotel a fissare la pioggia. Una pioggia battente che, sul centro di Hanoi come su tutta l’Indocina, avrebbe continuato a scendere per i prossimi tre mesi. Ma non era affar mio, questo lo sapevo: l’indomani Laura e io saremmo partiti in treno per il confine cinese e presto avremmo cambiato latitudine, orizzonte e stagione.
Non so da quanto tempo fossi lì, mi ero semplicemente imbambolato e quasi non sentivo più i clacson e lo sciabordare dell’acqua sotto le ruote dei taxi. Il traffico continuava nel suo solito tenore; la gente mi passava davanti agli occhi nelle mantelle colorate, in bici, a piedi o in motorino. Ma io non vedevo i dettagli, non percepivo ogni passante come un individuo. Vedevo solo macchie liquide di colore.
Una donna camminava lungo il marciapiede dall’altro lato della strada. Non so perché misi a fuoco proprio lei. Procedeva senza schivare le pozzanghere, avvolta nella sua mantella nera. La sua faccia rimaneva nell’ombra del cappuccio e non riuscivo a darle un’età, non potevo dire se fosse bella o brutta. La vidi attraversare la strada proprio all’altezza in cui mi trovavo io, senza guardare a destra o a sinistra. Veniva verso di me e ora potevo vederle il viso: aveva un’espressione che giudicai saccente, di quelle facce che hanno le persone che la sanno lunga e stanno per rivelare, a te che non capisci un cazzo, come gira il mondo.
Mi si parò davanti e io mi sentii subito in imbarazzo. Ero anche irritato per esser stato privato del mio status di osservatore e per il fatto di dover ora partecipare a una qualche conversazione.
“Hello.” dissi.
“Non mi riconosci?” mi rispose in italiano, mentre la sua mantella nera mi gocciolava sui piedi bagnandomi i sandali.
La guardai più attentamente: non mi ricordava proprio nessuno. E poi, pensai, mi sarei ricordato di un’asiatica che parla italiano. Diventai diffidente, come sempre. Pensai che il gestore dell’albergo le avesse detto che ero italiano e che, col pretesto di quella lingua imparata chissà come, avessero ordito un piano per abbindolarmi e derubarmi.
“Non credo che ci conosciamo.” dissi.
“Sicuro che non ci siamo visti prima?”
“Assolutamente sicuro.”
Rimasi in silenzio. Toccava a lei ora: doveva dirmi chi era. Oppure poteva spremersi in un sorriso imbarazzato, se ne era capace, e dirmi che si era sbagliata. Invece avvicinò le labbra al mio orecchio. La sua mantella mi gocciolava addosso, bagnandomi i pantaloni e la maglietta. Mi sussurrò il suo nome.
“Non conosco nessuna Lara” dissi.
Roteò gli occhi verso l’alto, tra il divertito e lo spazientito.
“Non Lara, Lora!”
“Nemmeno.”
“Ma allora sei proprio stupido! L’ora! ELLE-APOSTROFO-ORA.”
Ma certo, l’ora! Sapevo che sarebbe arrivata e adesso che ci pensavo aveva ragione lei: ci eravamo già incrociati. Ma ogni volta avevo trovato un pretesto per evitarla, infilandomi in un negozio all’ultimo momento, attraversando la strada, o cacciando la testa sott’acqua. L’ora di tornare a casa…
Quando la donna sparì (quando tornò a non esistere) rimasi a riflettere. Passai un momento difficile su quel gradino. Mi accorsi che un’ombra si era allungata su di me, silenziosa, senza che me ne fossi accorto. Qualcosa si era rotto, una luce s’era spenta da qualche parte e io non trovavo l’interruttore. Non avevo nemmeno in tasca un fiammifero. Buio.
Iniziai a farmi delle domande, a darmi delle risposte. Non ero andato fin là per ammalarmi di un male che mai in vita mia mi aveva sfiorato. Non avevo attraversato mezzo mondo per sentirmi oppresso come quand’ero un uomo bloccato nel traffico e avevo un orologio al polso.
Immaginate di essere stati a una festa di matrimonio. Avete mangiato e bevuto a volontà, senza badare al portafoglio né al fegato, e ora siete stanchi ma soddisfatti, pronti per tornare alla normalità e ricordarvi di questo giorno magico. Entrate in casa e quando accendete la luce tutti i vostri amici sono lì, con dei cappellini buffi in testa: “Sorpresa!” Vi eravate dimenticati che oggi è anche il vostro compleanno ed è appena cominciata un’altra festa. Intorno a voi c’è musica, c’è da bere e da mangiare, ma voi avete altro per la testa.
È più o meno così che mi sentivo in quel momento. Pensai che sarebbe stato uno spreco continuare ad attraversare paesi e continenti senza riuscire a vedere più niente, senza avere fame.
Tornai dentro e ne parlai con Laura. Anche lei era stanca; aveva raggiunto un livello d’entusiasmo minimo e non aveva certo la forza per risollevare il mio, fisiologicamente più basso. Cercammo di ragionare insieme, mettendo su un piatto della bilancia il nostro progetto (non ufficiale ma nemmeno segreto) di tornare a casa via terra attraversando la Cina, la Mongolia, la Russia, eccetera. Oltre alle infinite traversate c’erano anche da considerare i problemi relativi ai passaporti e ai visti: tutti guai che solo un anno prima avremmo affrontato con spirito d’avventura e che ora ci sembravano solo insormontabili rotture di coglioni. Sull’altro piatto della bilancia ci abbiamo messo la stanchezza e la voglia di essere a casa, tra le nostre cose e i nostri cari. E la voglia di tornare ai nostri progetti, alle migliaia di cantieri aperti con la fantasia negli ultimi due anni alla voce “Quando torneremo…”
Se il nostro viaggio era un cerchio, quel cerchio andava chiuso. Su questo non avevamo dubbi. Forse l’errore era stato pensare di doverlo chiudere sulla carta geografica, mentre bastava farlo nella nostra testa.
Ci abbiamo messo un altro mese a fare di quelle sagge parole un’intenzione, e infine un’azione. Ormai avevamo il visto per la Cina, e la Cina era ciò che avevamo aspettato per tanto tempo. E poi, poteva anche darsi che la Cina stessa ci avrebbe rigenerati, che ci avrebbe ridato le energie e la voglia di farci frullare ancora sugli autobus, di farci stipare nei vagoni di terza classe, di passare notti insonni in stanze troppo calde.
Ma non è successo. A Xi’An, nella lussuosa suite di un ostello (!), il giorno del mio compleanno, abbiamo messo uno stop a tutti i se e a tutti i ma. Abbiamo comprato un biglietto aereo. Per Mosca? Per Berlino? Parigi, Londra, Riga, Helsinki? No. Per Milano. Tutte le altre sarebbero state inutili consolazioni simboliche di cui non avevamo più bisogno. Tanto valeva avere il coraggio di tornare, così come avevamo avuto quello di partire. Appena la compagnia aerea ha confermato l’ordine via e-mail abbiamo iniziato a ridere come due scemi. Due scemi contenti.
Stiamo arrivando. Forse siamo già lì!
Hai ragione Giuliano. Appena riesco a riprendermi dal torpore e a mettere insieme un po' di cervello magari scrivo qualcosa. Non so quando succederà…
Ciao!
è passato un mese da quando siete tornati, ora andrea, per favore, trova il tempo di scrivere un po' 🙂 voglio sapere com'è questo ritorno 🙂
forse vi ha storditi la notizia che anche silvio può esser condannato???
dai vogliamo sapere………..a presto.
giuliano
Grazie! Quando volete ci incontriamo. Avete la mia mail, giusto?
Buon ritorno, ragazzi!
Vabbè dai, mettici lo stesso tra i preferiti, magari ci scappa qualche altro post.
A presto!
dopo un anno e mezzo ti stavo mettendo nei preferiti …così almeno tutte le sere invece di scrivere il nome per intero e sbsgliandolo…sarebbe bastato un clic..e adesso voi tornate…
Vabbè…
a presto allora…
Grazie!!!
Bellissimo post! Avete comunque realizzato u sogno, e fatto un'esperienza incredibile che vi ha enormemente arricchiti. Vi auguro un buon rientro and all the best! Immagino la vostra felicita' e di chi vista aspettando da tanto tempo!
Eli