Il brivido di dire: Sono cattivo. Quattro ragazzini marciano su Arese

Venerdì scorso rientravo da una serata con amici. Era poco prima di mezzanotte e per le vie del centro di Arese, la piccola città in cui vivo, c’era poca gente: le solite facce consumate fuori dai bar, qualche coppietta che camminava a braccetto, ragazzini in bicicletta di ritorno a casa. Ero stanco, assonnato. Ho parcheggiato la macchina in cortile e ho infilato le chiavi nella serratura della porta.

Poi ho sentito una musica provenire dalla strada. Una marcetta echeggiava nella via, pompata ad un volume altissimo. Mi hanno colpito la limpidità e la potenza del suono che rimbalzava sui muri delle case. Musica come quella la immagini uscire da un grammofono, non da una cassa bluetooth di ultima generazione. Ho fatto un passo indietro, ho guardato verso il cancello che dà sulla strada e ho visto passare dei ragazzini. Camminavano compatti, il passo svelto, quasi solenne.

Una goliardata, ho pensato: uno di loro deve aver interrotto la solita playlist di trap con un brano ridicolo, anacronistico, tanto per far ridere gli amici. Ho sorriso, ho girato la chiave nella serratura e ho messo un piede dentro casa. Poi ho riconosciuto il brano: era Faccetta nera. I ragazzi erano ormai scomparsi dalla mia visuale, ma d’istinto mi sono precipitato in strada per vederli.

Erano in quattro e stavano marciando nei loro giubbotti colorati e pantaloni corti sulle caviglie. Sembravano guardare verso le finestre delle case, come ad accertarsi che tutti sentissero. Alla fine di ogni strofa, insieme, facevano il saluto romano.

Non è nulla, forse. Sono solo ragazzini con le caviglie scoperte e la testa piena di cazzate, come lo siamo stati tutti a un certo punto della nostra vita. Nemmeno lo sanno che lui, il Duce, quella canzone non la sopportava perché inneggiava all’amore promiscuo, in qualche modo interrazziale. Sono solo ragazzini.

Mi sono riavviato verso casa, le mani ficcate in tasca e i denti che mordevano il labbro. Poi mi sono ricordato che proprio quel giorno a Christchurch, in Nuova Zelanda, un ventottenne australiano di nome Brenton Harrison Tarrant aveva ucciso in due attentati 50 musulmani.

Lo aveva fatto in diretta Facebook, e poco prima di entrare nella moschea di Al Noor e di iniziare a sparare anche lui aveva diffuso della musica: una marcia tradizionale dell’esercito britannico e altri brani che inneggiavano all’odio verso i musulmani.

In macchina aveva un arsenale da guerra. Le pistole e i caricatori usati erano coperti da scritte che rievocavano conflitti tra musulmani e cristiani europei, i nomi delle recenti vittime di attacchi terroristici islamici e i nomi di alcuni attentatori bianchi, tra cui Luca Traini, che nel 2018 a Macerata aveva aperto il fuoco su un gruppo di africani.

Sono solo ragazzini, forse. Identificarsi è un bisogno, in particolare per i giovani. In particolare in tempi come questi, in cui la paura e l’incertezza ci portano a chiuderci e a difenderci da minacce a cui non sappiamo dare il nome. I simboli ci aiutano a orientarci nel mondo: bandiere, stemmi, canzoni che ci facciano sentire parte di qualcosa. Ma di cosa? Questo fa la differenza.

Sono convinto che ci sia qualcosa di sinistro in questa nuova ondata di adesioni all’estrema destra. Non sono il tipo che si indigna, anche se a volte dovrei. Preferisco guardare alla causa dei fenomeni e cercare di capirli. Ma non posso ignorare una cosa che ho percepito parlando con alcune di queste persone; un cosa che va oltre la paura, l’incertezza e l’ignoranza. È il sottile piacere di scegliere il male. Il brivido di dire: Sono cattivo. E di poterlo finalmente fare, nel centro di una città di provincia, nel giorno in cui si è compiuta un strage.

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