I bambini sorvegliati speciali, gli adulti in discoteca

Luglio, Abruzzo. Portiamo i bambini al mare. Anche se non ne abbiamo voglia ci proviamo, se lo meritano dopo un inverno simile. In spiaggia, ombrelloni distanti qualche metro, ma con sotto 5-6 persone. Nessun controllo. Una madre regala un delfino gonfiabile a un bambino sconosciuto. Grato, il genitore del bambino sconosciuto dà al natante una bella gonfiata a bocca. Andrà tutto bene. Facciamo fagotto e andiamo in montagna.

Luglio, Piemonte. Appuntamento nella piazza della chiesa di un piccolo paesino con un agente immobiliare. Per motivi lunghi da spiegare siamo costretti a salire sulla sua macchina. Vedendo me e Laura arrivare da lontano fa un cenno con la mano. Con un moto di sconforto apre il bagagliaio, tira fuori una mascherina sgualcita e la indossa (al contrario e alla rovescia!). “Oh mio dio, mi arrivano con la mascherina…” dice ad alta voce.

Agosto, Piemonte. Serata organizzata dalla pro loco del suddetto paesino. Proiezione di un film. Ambiente chiuso, sedie distanti un metro. Altra gente in piedi, in tutto almeno un centinaio di persone. Nessuna mascherina.

Agosto, Toscana. Sulla strada costiera, di sera, una coda di ragazzi ammassati fuori da una discoteca. Dagli altoparlanti, un ritornello di J-Ax: “Ci baciamo tutti.”

Agosto, Trentino Alto Adige. Un attimo prima di entrare al chiuso i padroni di casa, gente mai vista prima: “Togliete la mascherina, tra di noi non c’è bisogno.”

Ieri, Lombardia. Un vecchio collega di lavoro incontrato per caso: “Scusa, è che io ho bisogno di abbracciare la gente.”

Queste alcune istantanee dell’estate appena trascorsa. Ho scelto immagini che vanno nella direzione di ciò che voglio dire in questo post, ma in generale ho notato contesti in cui vige il liberi tutti e altri (pochi) in cui la gente indossa la mascherina anche sotto la doccia. In generale preferisco questi ultimi: saranno anche ridicoli, ma non fanno male a nessuno.

In mezzo agli estremi, il buon senso. Che sarà anche soggettivo, ma almeno si basa sul fatto di porsi il problema di quale sia la cosa giusta da fare, per sé e per gli altri. Associato a un’informazione non superficiale, i buon senso non è poco.

Prima del lockdown ho pubblicato un post dal titolo per niente azzeccato, visti gli sviluppi, di cui però rivendico un principio: quando la situazione è incerta e le conseguenze inconoscibili, meglio fare un passo indietro ed essere prudenti. Invece vedo che non è così, vedo che non tutti abbiamo imparato qualcosa.

All’inizio di tutta questa storia sono stato molto rigido, con me stesso e con i miei figli. Già prima che le regole del buon senso diventassero legge, ho spinto per limitare al massimo i contatti con le altre persone, la frequentazione dei luoghi pubblici, ecc. Più volte mi sono chiesto quale effetto tutto questo avrebbe avuto sui miei piccoli, e spesso ho avuto dei dubbi su quale fosse, per loro, il male minore.

Poi il lockdown è finito, progressivamente ci si è rimessi alla capacità di giudizio delle persone. Allora i miei dubbi si sono fatti più opprimenti, hanno cambiato natura. Restio a tornare alle vecchie abitudini, osservavo le persone e mi chiedevo: possibile che solo i miei figli debbano pagare caro il prezzo di tutta questa merda? Che senso ha tenerli segregati se poi gli altri si comportano in modo leggero e a settembre, comunque, loro torneranno a scuola e noi al lavoro?

Questa è la mia preoccupazione: che il prezzo della pandemia verrà pagato dai più piccoli, in termini di effetti psicologici a lungo termine. Queste restrizioni, e la paura trasmessa loro dagli adulti, lasceranno il segno.

È un prezzo necessario, forse, ma iniquo considerato il fatto che in questi giorni, in pieno agosto, ancora si discute sull’opportunità o meno di chiudere le discoteche e limitare l’accesso a eventi mondani nelle località turistiche. Un film già visto, e gli argomenti sono più o meno gli stessi già sentiti a febbraio e a marzo, prima del lockdown: “Se chiudiamo avremo un danno economico irreparabile”, “Non siamo untori”, ecc. Intanto i focolai si accendono, anche nelle discoteche.

In una situazione incerta come quella presente, in cui “la prima ondata di Covid-19 in Italia altro non è stata che una breve passeggiata del virus, molti adulti non sembrano pronti a fare un minimo sforzo per prevenire una nuova crescita dei contagi: stare lontani almeno un metro, usare la mascherina, lavarsi le mani. Il perché, giuro, non l’ho ancora capito.

Non c’è motivo di non trovarsi con gli amici per una grigliata o per una festa: basta stare all’aperto e stare a distanza (per davvero). Basta mettere una mascherina (per davvero), se le distanze si accorciano. Basta non scambiarsi i bicchieri, non toccacciare gli oggetti a caso prima di frugarsi il naso.

La prima volta eravamo impreparati, non sapevamo a chi credere, e va bene. Facciamo finta, un po’ all’italiana, che siamo brava gente e che le scuse reggano. Stavolta no! Non vale fare il labbruccio e dire “Non mi chiudete in casa di nuovo! D’ora in poi faccio il bravo.”

Ci vuol coraggio a chiedere ai bambini di sacrificarsi, di stare lontani un metro, di tornare a scuola con le finestre aperte ma con le porte sprangate. Ci vuole coraggio, sapendo benissimo che il contatto fisico, per i bambini più piccoli, è di vitale importanza per lo sviluppo cognitivo e per la maturazione di competenze sociali e relazionali. Eppure si chiede loro di essere responsabili, ragionevoli, e spesso scopriamo che ne sono capaci.

Ma come chiedere questo sforzo ai bambini, quando noi stessi non sappiamo rinunciare alle nostre esigenze del momento? La nostra incoerenza di adulti è sotto i loro occhi attenti fin dall’inizio: ci hanno osservati minimizzare quando i primi casi di contagio sono stati resi noti in Italia, poi ci hanno visti chiuderci in casa in preda al panico, preoccupati davanti ai notiziari; infine ci hanno scoperti a tirare un sospiro di sollievo e lasciarci andare sulle spiagge o con gli amici, ci hanno sorriso mentre li guardavamo danzare accalcati alla baby dance del villaggio turistico di turno…

Come bambini, noi, abbiamo cambiato atteggiamento con la velocità con cui cambiano gli hashtag del giorno. Con la facilità con cui si tira lo sciacquone siamo passati dal prendere in giro la gente che credeva alla bufala del virus al denunciare il vicino che usciva da solo alle 5 di mattina per fare jogging. Maestri nel pianto al bisogno, maestri nel glorificare gli eroi della patria, maestri del me ne frego. Ora, con i contagi di nuovo in crescita e la ripresa delle attività a settembre, si ricomincia la trafila da capo?

I bambini rischiano di dover rispettare regole ferree a scuola, di perdere il loro gruppo classe e le loro abitudini in favore di piccoli gruppi più piccoli e a compartimenti stagni, per poi trovarsi in balia delle scelte personali degli adulti di riferimento al pomeriggio, dopo la scuola, quando potranno incontrare quegli amici che la scuola ha separato da loro.

Le regole contenute nelle linee guida del Ministero dell’istruzione hanno un senso, e un hanno prezzo. Vale la pena pagarlo (e i bambini lo pagheranno caro) solo se inserito in un quadro coerente in cui tutti si va nella stessa direzione. Altrimenti, se proprio dobbiamo fare un’eccezione (e non dobbiamo!) facciamola per loro: i bambini. E se proprio dobbiamo chiedere un sacrificio maggiore, facciamolo noi adulti. E non il contrario.

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