L’Appennino per me è sempre stato un magnete. Da quando ho iniziato a guidare (la moto, all’inizio) e ho potuto spingermi da solo oltre il Po, non ho fatto che tornarci. Mi attiravano paesaggi, borghi, frammenti di umanità che mi sembravano nascondere storie che avrei voluto conoscere. Mi stupiva come tanta bellezza non attirasse le folle ed ero sicuro di aver trovato un tesoro nascosto.
Montagne meno spettacolari delle Alpi, ma più aperte agli orizzonti. Sulle Alpi si conquista il Passo, o la vetta, poi si torna a valle a raccontarlo. Sugli Appennini si continua a salire e scendere, dal Tirreno all’Adriatico, dalla Liguria alla Calabria, in una specie di spirale fatta di strade provinciali. Proprio come quella che ora vedo fuori dalla finestra della nostra nuova casa.
Una di quelle estati di vent’anni fa l’ho passata proprio così, avanti e indietro da costa a costa. Moto, tenda e cartina stradale. Viaggiavo con un foglietto appiccicato sul serbatoio su cui avevo appuntato le direzioni da tenere per poter restare sulle strade secondarie, per me da sempre le più interessanti. Mentre i miei coetanei si conquistavano la loro prima vacanza “da soli” in qualche comitiva di venti persone, io da solo attraversavo boschi, pascoli, borghi. Vedevo che molte case erano disabitate, lasciate andare in rovina, e anche questo mi attirava. Non perché avessi il gusto del rustico, ma perché pensavo: qui non c’è nessuno, quindi c’è posto per me.
L’inverno successivo mi è servito per telefonare a tutti i falegnami delle provincie montane di Emilia e Toscana, chiedendo se cercassero un apprendista. Rispondevano anziani divertiti dall’idea che qualcuno, per giunta con un accento forestiero, potesse aver avuto un’idea simile: la loro bottega, ridotta ormai alla sopravvivenza, sarebbe finita con loro. Oppure rispondevano vedove, figli ed eredi vari; restavano in silenzio per qualche secondo, rumori di cucine e televisori in sottofondo: la bottega non esisteva più, il falegname era morto e nessuno aveva preso il suo posto.
Nessuno cercava un apprendista, insomma, e il mio entusiasmo si è frantumato contro un muro fatto di spopolamento delle aree rurali e buoni consigli che dicevano: Resta in città, qui troverai più opportunità. A ripensarci ora, mi stupisce constatare quanto avessi le idee chiare: volevo fare un lavoro manuale, e volevo vivere sugli Appennini. Semplice. Cosa c’era di tanto strano?
Negli anni a seguire mi sono costruito una professione in tutt’altro ambiente, ho lavorato, mi sono laureato… Ma a vederla da qui, ora che alle soglie dei Quaranta mi sono veramente trasferito sui monti emiliani, mi sembra di aver navigato nella nebbia per tutto questo tempo, impegnato a tenere il timone che mi era stato rifilato e allo stesso tempo a cercare un modo per venirne fuori.
Non rinnego nulla: ogni vita deve fare la sua rotta. Io dovevo arrivare qui, sull’Appennino, e dovevo metterci vent’anni. Ma se mi incontrassi, ventenne, seduto su un paracarro a mangiare un panino accanto alla mia Honda, me lo direi: ascoltali, se vuoi, tutti quei consigli. Digli che hanno ragione, ma poi lasciali andare.
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Già che siete qui, vi do una notizia, se così si può dire. Io e Laura proveremo a raccontare questa nuova avventura anche attraverso le immagini. Ci trovate sul canale Instagram che per ora si chiama Famigliaaway. Magari troveremo un nome migliore.
A presto!